27 Aprile 2024

Diritti delle donne, ovunque nel mondo una lontana chimera

Foto dell’utente Flickr Yara Kassem – Licenza CC

È una foto a tinte scure quella che emerge dal nuovo report annuale 2019-2020 di Amnesty International (AI) sulla situazione globale dei diritti umani.

L’ONG, nelle 220 pagine pubblicate lo scorso 4 giugno, rileva una netta erosione dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo da Nord a Sud del mondo.

Abusi e violazioni di ogni genere, che assumono una connotazione alquanto inquietante in alcune zone del Pianeta, dove le guerre si mescolano a un clima di sostanziale impunità. Nell’Africa subsahariana, per esempio, diversi Stati, anziché rispettare l’impegno politico regionale di “silenziare le armi” entro il 2020, hanno portato avanti sanguinosi conflitti caratterizzati dal dilagare – si legge nel report – di “uccisioni, tortura, rapimenti, sfollamenti di massa, crimini di diritto internazionale” commessi, soprattutto, da attori non-statali.

Ma pure in contesti di pace, AI registra una chiara inclinazione a mortificare la dignità umana. In Europa – tempio apparente dei diritti – i valori di umanità, libertà, giustizia, sono stati costantemente calpestati in nome del potere e di discutibili politiche securitarie adottate dai Governi. Ne sono un’evidente dimostrazione, la deriva anti-democratica di Orbán in Ungheria nonché le minacce all’indipendenza della magistratura in Romania e Turchia. O le scelte dell’Italia nella gestione del fenomeno migratorio, “aventi l’obiettivo di limitare l’esercizio dei diritti e impedire alle persone soccorse in mare di sbarcare” sul nostro territorio.

L’aspetto però più interessante e meno immediato del report – che “non allinea dati, non propone statistiche, non fornisce informazioni (…), ma difende l’integrità, l’inviolabilità e l’intangibilità della vita” – riguarda, a parere di chi scrive, la condizione generale della donna.

Dalla lettura del documento, risalta infatti come discriminazione, emarginazione e violenza, continuino a essere perpetrate, attraverso varie modalità e con diversi livelli di gravità, ai danni di donne e ragazze di qualsiasi nazionalità.

In buona sostanza, si deduce che quanto accade nella realtà è in netta antinomia con i progressi compiuti sul piano internazionale, sotto il profilo formale, per promuovere e garantire i diritti delle donne. E va, in un certo qual modo, a inficiare gli sforzi posti in essere dal movimento femminista mondiale nella misura in cui – anche laddove si sono verificati significativi sviluppi in settori quali: la politica, l’istruzione, il lavoro – il raggiungimento della piena parità dei diritti sembra ancora una lontana chimera.

Va precisato che AI non svolge un’indagine tematica sulle violazioni commesse contro le donne. L’analisi delle panoramiche regionali e degli approfondimenti su alcuni Paesi consente, tuttavia, di ricostruire quantomeno un quadro generico, individuando tre macro categorie di abusi di cui le donne sono state più spesso vittime nel corso del 2019. Precisamente, si fa riferimento alla violenza sessuale, alla violenza di genere e al mancato rispetto dei diritti sessuali e riproduttivi.

La violenza sessuale, in ogni sua forma, è stata purtroppo il comune denominatore di tutti i continenti. E ha assunto una diversa declinazione a seconda dello specifico contesto geografico.

Riguardo all’Africa, lo stupro è stato sovente utilizzato come strumento di guerra. Un caso è quello del Sud Sudan, dove “la violenza sessuale legata al conflitto – scrive AI – inclusi stupri, stupri di gruppo e mutilazioni sessuali, ha costituito a un fenomeno pervasivo”.

In America Latina, invece, gli abusi sessuali sembrerebbero essere stati utilizzati per intimidire e ridurre al silenzio soprattutto alcune categorie di donne. Si legge, infatti, “sebbene tutte le donne della regione fossero a rischio, alcune lo erano anche a un livello maggiore” ovvero “le attiviste per i diritti umani, le donne appartenenti a comunità afro-discendenti e native. Queste ultime, sono state un bersaglio anche negli Stati Uniti e Canada, dove “hanno continuato a subire livelli sproporzionalmente elevati di stupri e altra violenza sessuale”.

Quanto all’Europa, a preoccupare sono stati tanto gli ostacoli relativi all’accesso alla giustizia per le vittime che la definizione giuridica di stupro. In effetti, “Paesi come Danimarca, Spagna e Regno Unito hanno fallito nel prevenire, indagare e punire” questi tipi di reati. E in gran parte degli Stati europei lo stupro è tuttora basato “sul concetto di uso della forza, in netto contrasto con le norme e gli standard sui diritti umani”, secondo cui “il sesso senza consenso corrisponde a stupro”.

Venendo invece alla violenza di genere, il report mette in evidenza come, in America Latina, il tema dell’uguaglianza sia diventato sempre più sentito soprattutto tra le nuove generazioni. Tuttavia, “gli sforzi dei Governi per eliminare i radicati atteggiamenti discriminatori che sorreggono e perpetuano” i soprusi contro le donne “sono rimasti inadeguati”. Oltre al fatto che le vittime non sono riuscite a ottenere giustizia “a causa di pregiudizi radicati e classisti all’interno del sistema giudiziario. Ciò significa, che le sentenze hanno continuato a penalizzare le donne. Mentre, gli autori dei crimini sono rimasti impuniti, anche nei casi di femminicidio. Discriminazioni e vessazioni sono la norma in El Salvador, Guatemala, Honduras, Messico, Perù, Repubblica Dominicana.

Il discorso non è troppo diverso per il Nord Africa e il Medio Oriente. A riguardo, il report sottolinea che “il 2019 è stato testimone di alcuni positivi sviluppi ottenuti a livello legislativo e istituzionale sul piano (…) della lotta alla violenza di genere”. Ma, ogni conquista è stata sminuita “dalla dura repressione messa in atto contro i difensori dei diritti delle donne dalle autorità di alcuni Paesi”. Il riferimento vale, in particolare, per Arabia Saudita, Iran, Libia.

Passando infine ai diritti sessuali e riproduttivi, il dato più significativo che si reperisce nel report attiene alla questione dell’aborto. AI rileva, anzitutto, che le legislazioni restrittive così come i tentativi di criminalizzare la pratica non hanno ridotto il numero di interruzioni di gravidanza. Piuttosto hanno spinto le donne incinte a ricorrere ad aborti non sicuri con gravi rischi per la salute.

La difesa del diritto all’aborto è peraltro risultata molto pericolosa. Basti pensare che in Brasile, l’attivista Debora Diniz ha ricevuto minacce di morte proprio per tale motivo.

Assai complesso, inoltre, è parso l’accesso ai servizi di salute riproduttiva. Negli Stati Uniti, “a livello federale e statale – riporta AI – si sono intensificati” gli sforzi per limitare l’utilizzo di alcune tipologie di prestazioni, con il potenziale effetto di “fare aumentare i già elevati tassi di mortalità materna nel Paese”. In Venezuela, “la mancanza di personale qualificato, la carenza di forniture mediche e la precaria situazione degli ospedali, hanno costretto molte donne” a lasciare lo Stato per poter partorire.

Alla luce di quanto detto, si può ricavare che le donne incontrano ancora serie difficoltà nell’esercizio effettivo dei loro diritti. Alcuni profili delle questioni fin qui trattate, meritano un migliore approfondimento. Proprio per questo, Voci Globali ha incontrato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

Da vari elementi contenuti nel report, si ricava che l’impegno dei movimenti per i diritti delle donne continua a scontrarsi con una cultura dominante – spesso riflessa nelle normative o nelle pratiche statali – ancora tesa a discriminare la donna in quanto tale, relegandola a ruoli assai stereotipati. In ragione della sua esperienza nell’ambito dei diritti umani, quali sono gli ostacoli che impediscono la concreta realizzazione dell’empowerment femminile?

In Italia, il lavoro in difesa dei diritti delle donne incontra ancora oggi molti ostacoli. Ciò che impedisce un reale empowerment femminile è, anzitutto, la preoccupante tendenza a reinterpretare e riorientare la nozione di parità di genere in termini di politiche per la famiglia e la maternità.

Le istituzioni, e di conseguenza le politiche, devono invece impegnarsi a scardinare, con tutti gli strumenti necessari, la cultura maschilista caratterizzante il nostro Paese. La natura strutturale della violenza nei confronti delle donne si basa, infatti, su un modello di subordinazione dei bisogni femminili rispetto a quelli maschili. Solo quando le donne saranno libere dalla violenza e sarà chiaro che i due sessi devono essere trattati alla pari, potremo parlare di reale emancipazione femminile.

In tal senso, è necessario promuovere una cultura della diversità in grado di offrire immagini e modelli non stereotipati, volti a privilegiare l’identità di genere come aspetto fondamentale dello sviluppo umano e della formazione individuale, nonché capaci di stimolare paradigmi culturali plurali.

In tema di violenza sessuale, Amnesty International – ormai da anni – si batte affinché gli Stati intervengano a rivedere la definizione giuridica domestica di stupro. Come evidenziato nel report, in gran parte dei Paesi europei la stessa è ancora fondata, infatti, sull’archetipo dell'”uso della forza”. Può spiegare i motivi per cui emendare le legislazioni nazionali, basandole sulla “mancanza di consenso”, è una scelta necessaria?

È indubbio che la violenza sessuale costituisca una seria violazione dei diritti umani. Ciononostante, la gran parte delle aggressioni non viene segnalata alle competenti autorità. Fattori quali la paura, la vergogna e la mancanza di fiducia nel sistema giudiziario dissuadono molte donne e ragazze dal denunciare le aggressioni sessuali subite.

Ogni donna deve potersi sentire sicura e avere delle relazioni sessuali totalmente consensuali. Il sesso senza consenso è stupro.

Per sradicare gli stereotipi e i miti di genere dannosi che ruotano intorno al concetto di violenza sessuale, è indispensabile realizzare un profondo cambiamento nei modelli sociali e culturali di comportamento da parte delle persone di ogni sesso. In Europa, gli Stati che rispettano in pieno il dettato della Convenzione di Istanbul per prevenire e contrastare la violenza sessuale sono solo 10. Una legislazione così monca influenza molte sentenze, che riconoscono e condannano lo stupro solo in caso di violenza fisica, minaccia o coercizione.

Anche la Sezione italiana ha annunciato di voler avviare “una campagna per chiedere al Parlamento di riformare la legge sullo stupro in base al criterio dell’assenza del consenso”. A sua avviso, cosa potrebbe aver finora frenato il legislatore italiano dall’operare questo doveroso cambiamento?

In Italia, il reato di stupro non è definito in maniera esplicita in termini di “rapporto sessuale senza consenso”.  Affinché un determinato comportamento venga qualificato come strupro devono, infatti, concorrere diversi elementi, quali: violenza, o minaccia, inganno, abuso di autorità.

Amnesty International chiede la revisione dell’articolo 609-bis del codice penale proprio per far sì che qualsiasi atto sessuale non consensuale sia punibile, sulla base di un modello teso a valorizzare l’elemento del consenso della persona offesa e non la violenza o la minaccia. Seguendo questa strada, la legislazione italiana verrebbe adeguata agli standard internazionali e, in particolare, alla suddetta Convenzione di Istanbul (art.36, p. 1).

Le autorità dovrebbero, inoltre, compiere maggiori sforzi per consentire una gestione rapida delle indagini e dei procedimenti penali, garantendo nel contempo adeguate risorse finanziarie per le misure adottate.

In riferimento alla salute sessuale e riproduttiva, l’aborto è senz’altro uno dei temi più spinosi e delicati, racchiudendo in sé una serie di implicazioni di ordine etico, religioso e socio-culturale. Il report denuncia, da un lato, i tentativi di alcuni Paesi di criminalizzare l’aborto. Dall’altro, il fatto che legislazioni troppo restrittive finiscono con indurre le gestanti a interruzioni di gravidanza non sicure. Non si riesce però bene a comprendere se l’ONG riconosca (o meno) il diritto della donna all’aborto. In altre parole, come mai finora AI non ha assunto una posizione chiara (a favore o contro) in materia?

Amnesty International ritiene che il diritto all’aborto sia una libera scelta della donna a prescindere dal modo in cui è rimasta incinta. L’ONG non prende posizione riguardo alle circostanze specifiche in cui una donna dovrebbe (o meno) avere un’interruzione di gravidanza. Ma chiede di garantire che i servizi per l’aborto siano sicuri e accessibili  al fine di prevenire gravi violazioni che potrebbero derivare ove fosse negata questa opzione.

Partendo da questa nostra presa di posizione, abbiamo sempre portato avanti campagne in varie regioni del mondo, dal Burkina Faso al Nepal passando per diversi paesi dell’America Latina.

Quello che è mancato finora è forse una campagna nazionale sull’aborto. Tuttavia, un chiaro richiamo all’opportunità di garantire questo diritto alle donne, in Italia come in Europa, è stato lanciato durante le settimane di lockdown attraverso un lavoro di partnership con diverse organizzazioni femministe e di settore.

[Ha colloborato alle risposte dell’intervista Tina Marinari, Campaigner di Amnesty International Italia]

Tiziana Carmelitano

Autrice freelance, si occupa in particolare di temi globali nonché di violazioni dei diritti umani in contesti conflittuali, post-conflittuali e in situazioni di "Failed States". Con un occhio di riguardo per donne, bambini e giustizia transitoria. Il tutto in chiave prevalentemente giuridica. Convinta che la buona informazione abbia un ruolo decisivo nell'educazione al rispetto dei diritti fondamentali e delle diversità.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *