Capire l’Iran significa addentrarsi in diverse trame, fatte di fili intrecciati intorno al regime degli ayatollah, alla corsa al nucleare, alla guerra costante con il nemico – gli Stati Uniti, alla costruzione di una difesa militare imponente, all’accusa verso le sanzioni economiche imposte dalla Casa Bianca.
Ma vuol dire anche affrontare le questioni più profonde e intricate, spesso poco comprensibili a noi occidentali e trascurate nelle valutazioni, quali l’imposizione del velo, l’identità religiosa, i retaggi della Rivoluzione islamica nella società, la lotta quotidiana delle donne per le libertà, le proteste per l’emancipazione femminile, la ricerca di un equilibrio tra antiche e radicate tradizioni e diritti civili.
Per ampliare l’orizzonte della conoscenza di questo Paese, Voci Globali ha intervistato Tiziana Ciavardini, antropologa e giornalista, che ci racconta la grande nazione persiana da testimone privilegiata, visto che vi ha vissuto per molti anni.
Il suo sguardo è rivolto soprattutto alle donne e al significato della loro coraggiosa lotta per emanciparsi e per conquistare diritti fondamentali.
L’Iran di oggi che Paese è?
L’Iran è un mondo a sé. Non conosco un altro Paese così complesso, contraddittorio, meraviglioso e allo stesso tempo inquietante quanto l’Iran. È un universo di colori, profumi, sapori ai quali si mescolano ideali e identità tutte diverse tra di loro. Non è definibile l’Iran di oggi se non un immenso ‘caos’, una confusione senza eguali.
È un Paese alla ricerca di pace e stabilità in cui i tanti disordini interni vengono spesso offuscati dal suo ruolo politico e strategico nella regione. L’Iran che conosciamo tutti è quello odierno, il risultato di una Rivoluzione Islamica avvenuta 41 anni fa. Se per certi aspetti può sembrare un Paese ‘pericoloso’ di fatto è il più sicuro in tutto il Medioriente, dove almeno una volta nella vita vale la pena visitarne le bellezze, assimilare la profondità e la spiritualità delle sue terre e conoscerne la grande ospitalità della popolazione. È praticamente impossibile, infatti, non venir catturati dall’estrema cordialità e gentilezza dei suoi cittadini. Il ‘taroof’, la gentilezza degli iraniani prima o poi deve essere considerata “patrimonio dell’umanità”.
Il suo “occhio da antropologa” ha potuto senz’altro captare dettagli significativi sulla società iraniana, sulla condizione femminile, sulla situazione politica. Quanti pregiudizi esistono e persistono in noi occidentali quando si parla dell’Iran?
Nell’immaginazione occidentale l’Iran è sempre stato presentato come un Paese insicuro e da evitare, caratterizzato da contraddizioni che spesso si traducono in luoghi comuni. Questo atteggiamento di avversione e di paura ha creato da tempo una sorta di iranofobia.
La mia esperienza mi ha portato ad avere una visione della cultura e della società contemporanea spesso in contrasto con quelle che sono le notizie, il più delle volte capziose e confuse, dei media occidentali. Sul tema dell’Iran, soprattutto negli anni scorsi, il giornalismo è spesso passato dal terreno dell’informazione a quello della propaganda. Troppo spesso il mondo iraniano è stato rappresentato attraverso la comunicazione di pregiudizi o stereotipi derivanti, quando non si trattava di malafede, da una scarsa conoscenza della Paese.
Chi sono le donne iraniane e cosa rivendicano?
In Iran essere donne è davvero molto complesso. Guardando dentro la lente d’ingrandimento datami dalla quotidianità dei miei oltre cinquemila giorni trascorsi in quella meravigliosa terra, ho compreso bene quanto l’universo femminile sia variegato e ricco di sfumature, impossibili da descrivere tutte.
Molto semplicisticamente tale universo potrebbe essere suddiviso in due: donne estremamente religiose e contrarie a ogni forma di ammodernamento della loro condizione e donne che desiderano il cambiamento del loro ruolo subalterno e, per certi versi, d’inferiorità, rispetto all’uomo.
Ma in realtà su queste due sommarie ramificazioni si stratificano numerosi altri chiaroscuri di idee, impossibili da schematizzare. Ogni giorno, una parte delle donne in Iran si trova a lottare per quelle poche e piccole libertà ottenute nel tempo e per molte di loro è ancora vivo il ricordo dei giorni della Rivoluzione e delle conseguenze che ne sono scaturite. L’estrema difficoltà di vivere la propria identità di donna oggi nasce dal fatto che l’instaurazione della Repubblica islamica ha recato con sé, per definizione, una serie di valori e di norme apparentemente in contraddizione con qualsiasi aspirazione al riscatto femminile.
Lontanissima, infatti, dal nostro immaginario occidentale di emancipazione è l’idea dell’Islam col suo retaggio di sottomissione, repressione e regressione. Lontanissima, col suo hijab (il velo islamico), assurto a simbolo della negazione del valore della donna e del suo ruolo sociale. Lontanissima, perché parlare di donne e di Islam non può prescindere dal sollevare questioni spinose, che mettono in discussione le fondamenta stesse del nostro modo di essere e di pensare la democrazia, la religione, la modernità.
Eppure, se in Iran le donne sono forse le principali vittime del sistema, esse rappresentano anche la forza sociale la cui critica a quest’ultimo è la più consapevole, la più dinamica e legittima. Quella delle iraniane costituisce oggi, nella società “post-islamista”, un’esperienza di mobilitazione esemplare e, insieme a quella di giovani e intellettuali, uno dei principali elementi di dinamismo. I sociologi la individuano come quel processo di produzione e maturazione di una società civile che è, come ovunque, condizione preliminare e necessaria a un’evoluzione in senso democratico della realtà sociopolitica.
Cosa significa, nel profondo, la loro battaglia contro il velo?
La questione del velo islamico in Iran è stata spesso terreno di scontro culturale e politico. In una società in preda alla confusione, al pregiudizio, agli stereotipi e alla dilagante islamofobia è necessario battersi per i diritti di chi in questo velo connota un valore religioso e simbolico e non un emblema di arretratezza culturale e obsoleta.
Altresì è nostro compito condannare aspramente chi del velo vorrebbe farne un uso coercitivo nei confronti delle donne. Il velo islamico deve essere sempre una libera scelta individuale e nessuna imposizione può essere ammessa o tollerata. Le donne iraniane, ovviamente non tutte, rivendicano la possibilità di scelta riconoscendo nel velo un sinonimo di ‘sottomissione’.
E la battaglia sul velo non finirà fino a quando le donne non saranno libere di scegliere cosa indossare. Per questo insieme alla sociologa Giorgia Butera abbiamo ideato la campagna “#hijabfreechoice. Il velo islamico libera scelta, mai obbligo”. Una campagna che nasce in supporto di tutte quelle donne che decidono di liberarsi dal velo islamico quando è personificazione di un obbligo e di un’imposizione, ma è anche a sostegno di quelle donne che nel velo islamico percepiscono un segno di riconoscimento della propria tradizione, cultura, religione ma soprattutto di appartenenza identitaria.
E breve uscirà un nuovo testo, Il velo Islamico, scritto insieme a Giorgia Butera ed edito da Castelvecchi con la prefazione di Emma Bonino, paladina da sempre dei diritti delle donne.
C’è una storia o una donna, in particolare, che l’ha particolarmente colpita in questo movimento per i diritti in Iran?
Purtroppo di storie ce ne sono tantissime, la maggior parte dei casi sempre molto tristi. Donne che hanno perso la vita in nome della propria dignità come Reyhaneh Jabbari impiccata per omicidio dopo aver ucciso l’uomo che voleva stuprarla. Una storia che ho seguito per anni e che non potrò mai dimenticare.
Di recente ho intervistato di Shaparak Shajarizadeh, una giovane donna attivista iraniana che ha scelto l’esilio per evitare la prigione, a causa delle sue idee troppo riformiste. Shaparak Shajarizadeh, è stata una delle ragazze della Rivoluzione, una delle tante che hanno partecipato ai #White Wednesdays, i Mercoledì Bianchi, ovvero la protesta silenziosa in cui alcune donne rimuovevano i loro foulard nei luoghi pubblici.
Il 27 dicembre 2017, un giorno prima dello scoppio di proteste in Iran contro la povertà, la disoccupazione e la dittatura, una donna era salita su una colonnina dell’energia elettrica in una delle strade più trafficate di Teheran, Enqelab (Revolution) Street e dopo essersi tolta il velo, lo aveva messo su un bastone e aveva cominciato a sventolarlo in aria. Il video era diventato subito virale e simbolo della resistenza delle donne iraniane. Così centinaia di donne in tutto hanno seguito l’esempio rimuovendo il velo in segno di protesta. Sono state identificate e condannate e molte di loro sono in carcere.
Shajarizadeh era una delle ragazze di via Revolution. È stata condannata a due anni di prigione oltre a una pena detentiva, sospesa, di 18 anni nel 2018. Il suo avvocato ha denunciato che è stata torturata nel centro di detenzione di Vozara, nella capitale, subito dopo l’arresto e che le sono state praticate, con violenza e contro la sua volontà, iniezioni di sostanze sconosciute.
Shaparak è una delle poche fortunate che è riuscita a fuggire dall’Iran, prima in Turchia poi ha chiesto asilo politico in Canada dove vive con suo marito e suo figlio che l’hanno raggiunta con grandi difficoltà dopo mesi.
Una storia che potremmo pensare a lieto fine, ma quando mi ha detto “il mio più grande dolore è sapere di non rivedere mai più i miei genitori, la mia casa, la mia patria”, ho pensato che non c’è alcun lieto fine se non una immensa e profonda tristezza. Non possiamo accettare che questo sia il prezzo della libertà che dovrebbe invece essere un diritto universale.