19 Marzo 2024

Repubblica Centrafricana, le invisibili ferite aperte del conflitto

Bambine durante il conflitto in Repubblica Centrafricana
Bambine durante il conflitto in Repubblica Centrafricana, 2013, EU/ECHO/M.Morzaria (CC BY-ND 2.0)

Sono le sei e mezza di mattina, a Paoua, in Repubblica Centrafricana, il sole è appena sorto svegliando così i bombi che iniziano a ronzare appena fuori della porta di camera mia. Reduce da una notte calda e senza vento, un pò disidratato, mi sveglio lentamente. È ancora presto e decido di fare un giro in giardino. Dopo qualche passo, ancora mezzo addormentato, mi imbatto in due buoi dalle lunghissime corna che mi guardano con i loro occhi neri, lucidi e calmi. I buoi sono attaccati ad un carretto guidato da due ragazzini, avranno al massimo 10-11 anni. Ogni mattina prendono l’acqua dal pozzo e la rivendono porta a porta, percorrendo lentamente le polverose e accidentate strade di terra rossa a bordo del loro carretto dondolante.

I ragazzi di questa età non hanno molti ricordi del loro Paese in pace. La guerra, infatti, è iniziata nel marzo del 2013 quando uno dei tanti gruppi armati presenti nel paese, conosciuto come Seleka, ha marciato sulla capitale Bangui e deposto il presidente in carica, Francois Bozizé, prendendo il potere.

In seguito a questa scintilla, i combattimenti fra Seleka, composto quasi totalmente da musulmani, e i gruppi armati cristiani, conosciuti come Anti-balaka hanno precipitato il Paese in una spirale di violenza, stupri, uccisioni e torture che non è ancora terminata.

La fase più intensa del conflitto si è conclusa nel 2015 ma, 5 anni dopo, la tensione in molte parti del Paese è ancora alta e spesso sfocia in sanguinosi combattimenti, nonostante l’accordo di pace firmato nel febbraio 2019 a Khartoum. Le elezioni, annunciate per dicembre di quest’anno contribuiscono ad aumentare ulteriormente il clima di incertezza e tensione nel Paese, mai completamente pacificato.

Sfollati durante il picco del conflitto, dicembre 2013
Sfollati durante il picco del conflitto, dicembre 2013, UE/ECHO/Jean-Pierre Mustin, (CC BY-NC-ND 2.0)

Come sempre, in queste situazioni, a soffrire più di tutti sono i bambini.

Agnes ha ora 18 anni ma quando ne aveva 10 venne rapita da uno dei gruppi armati, il Lord Resistance Army di Joseph Kony. A 11 le dissero che se non avesse ucciso un bambino che aveva provato a scappare avrebbero ucciso lei. A 12 venne stuprata da un comandante dei ribelli. L’anno successivo per fortuna riuscì a scappare e dopo qualche settimana a riunirsi alla propria famiglia.

Janet invece racconta che era a scuola quando la guerra sconvolse la sua vita. Scappò terrorizzata dalla classe quando i ribelli uccisero tutti gli studenti della vicina scuola secondaria. Successivamente, i ribelli bruciarono anche la chiesa dove si era rifugiata, e lei dovette rifugiarsi in un campo sfollati. Ma la crudeltà della guerra non risparmiò a Janet ulteriori perdite e mentre raccoglieva la legna vicino al campo sfollati, i ribelli uccisero sua mamma davanti ai suoi occhi.

Ali, ha 17 anni, vive in un quartiere abitato principalmente da musulmani a Bangui, noto come PK5, e dice che prima del conflitto non c’erano divisioni fra cristiani e musulmani, e vorrebbe che ci fosse una vera riconciliazione, superando la frattura creata dal conflitto per il controllo del Paese.

La guerra ha diviso comunità molto unite nelle quali cristiani e musulmani mangiavano, lavoravano e vivevano pacificamente insieme. Ora, anche incontrarsi con i suoi coetanei cristiani è impossibile perchè non è sicuro. E significa rischiare la propria vita per il semplice fatto di essere musulmano o cristiano.

Inoltre, tristemente, anche chi dovrebbe contribuire a stabilizzare il Paese a volte diventa carnefice. Daniella, una bambina rifugiatasi a Bangui durante il conflitto, aveva 10 anni e stava andando al mercato, quando venne assalita e stuprata da un gruppo di caschi blu delle Nazioni Unite francesi.

Per avere un’idea dello sviluppo economico del Paese basta un dato: il prodotto interno lordo (1.9 miliardi di euro) equivale a circa un decimo del fatturato dichiarato dal gruppo Telecom Italia nel 2018. Anche prima di questa ultima guerra civile, la Repubblica Centroafricana era già uno Stato molto povero ma sicuramente il conflitto del 2013 ha peggiorato la situazione.

Abitata da 6 milioni di abitanti che hanno un’aspettativa di vita di soli 54 anni e dove il 60% della popolazione ha meno di 24 anni, la Repubblica Centroafricana però è anche il penultimo Paese al mondo (188esimo su 189) secondo l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite.

I bisogni della popolazione sono enormi sotto tutti i punti di vista: sicurezza, protezione, cibo, salute, educazione, lavoro. In questa situazione di violenza diffusa, con decine di gruppi armati diversi che controllano il territorio e un’economia che non decolla, diventa davvero difficile per il Governo riuscire a fornire i servizi essenziali ai propri cittadini.

Il ruolo di migliaia di operatori umanitari, quasi tutti nazionali, missionari e volontari, diventa cruciale per assicurare a milioni di centroafricani condizioni di vita dignitose.

Enti missionari, agenzie delle Nazioni Unite e ONG – fra cui War Child, per cui lavoro – si impegnano ogni giorno al meglio delle proprie capacità per affrontare questi problemi, che sono estremamente complessi.

L’obiettivo è quello di aiutare bambini e giovani come Agnes, Janet, Ali e Daniella a superare i traumi della guerra. In uno spirito di stretta collaborazione con le comunità locali si creano spazi sicuri dove farli giocare e crescere tranquilli. Si ricostruiscono scuole e si formano insegnanti. I giovani sono inoltre supportati nello sviluppo di piccole attività imprenditoriali o a imparare un mestiere.

Al tempo stesso, si cerca di non trascurare l’aspetto del benessere mentale. Bambini e bambine sono coinvolti in attività di sostegno psicosociale attraverso attività eterogenee: calcio, ballo, coltivazione di orti comunitari. In questo modo, ex-bambini soldato, orfani e vittime di violenza possono trascorrere il loro tempo in maniera sicura e costruttiva.

I bambini iniziano a parlarsi di nuovo, ad interagire superando i traumi della guerra. Collaborano e imparano a fidarsi l’uno dell’altro. E in modo graduale si riconciliano fra loro e superano psicologicamente le esperienze che hanno vissuto.

La speranza è che le ferite invisibili lasciate dal conflitto nelle loro giovani menti guariscano così da poter partecipare finalmente alla ricostruzione di un Paese più coeso, pacifico e prospero.

Formazione in orticulturale sociale e terapeutica, Paoua, marzo 2020 (Foto: Stefano Battain)

Stefano Battain

Stefano Battain, consulente tecnico in sicurezza alimentare e mezzi di sussistenza con l’ONG inglese War Child che opera in Afghanistan, Iraq, Yemen, Repubblica Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo, ha lavorato anche in Tanzania, Sud Sudan e Giordania. Appassionato di viaggi, agroecologia e giustizia ambientale, con la moglie Daniela ha fondato e porta avanti l’iniziativa ALTERRATIVE

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