La poesia non è mai fuga dalla realtà. Semmai il contrario, esattamente il contrario.
La poesia è un correre verso e un correre dentro allo stesso tempo. Un’immersione nelle cose, nei fatti. Dopodiché diventa una corsa per afferrare le parole, quelle giuste, quelle più sincere, per raccontare prima che le sensazioni si sfilaccino e lascino il posto alla successiva esperienza.
È così, almeno, che sembrano vivere l’impegno poetico le donne che stiamo incontrando nel viaggio itinerante di AfroWomenPoetry. Impegno sì, perché non facciamo fatica a usare per molte di loro il termine attiviste. Si tratta di donne che usano la parola per esprimere situazioni di disagio, per denunciare condizioni di violenze (fisiche e psicologiche), per aprire varchi nel cambiamento che la nuova generazione di giovani africane sta portando avanti. Un cambiamento che non arriva e non viene dettato da fuori, da altri, ma che nasce spontaneo – a volte in modo doloroso – dalla propria vita, dalle esperienze, dalla volontà di coloro che ne sono protagoniste.
Come si fa a non comprendere, ad esempio, lo sforzo e il coraggio di artiste come la ghanese Nana Akosua Hanson e l’ugandese Arinda Daphine che affrontano il tema dell’amore tra donne sfidando tutte le chiusure e l’aggressiva resistenza di una società che spesso sa diventare anche violenta nei loro confronti. Si pensi all’Uganda che da anni cerca di introdurre nella propria legislazione la pena di morte per gli omosessuali. Ecco, in questo ambiente velenoso Arinda scrive una poesia di forte erotismo, “Regine ribelli“, con parole che non lasciano spazio a fraintendimenti e Akosua Hanson scrive “Amare Dio” che sfiora anche l’accusa di vilipendio.
E ci vuole la follia del poeta per scrivere un testo come “Tradimento“. Siamo ancora in Uganda, lei è Regina Asinde e immagina l’esecuzione del presidente in carica. Non con una ma con sette pallottole, tante quante le sillabe del suo nome, Yoweri Museveni. Rasenta la dittatura, visto che è al potere dal 1986. Un testo più che rischioso.
Basti pensare alla fine che ha fatto un’altra attivista, Stella Nyanze, accademica e femminista finita in carcere per aver postato su Facebook un poema in occasione del compleanno del presidente. “Avresti dovuto morire alla nascita, sporco dittatore delinquente. Avresti dovuto morire alla nascita, Yoweri Kaguta Museveni”. Finiva con questi versi la poesia, seguiva la sfida “Se vuoi picchiarmi per questi versi per il tuo compleanno vieni a cercarmi a casa. Tutti mi conoscono”. Così è stato, sono andati a prenderla. Il poema però è rimasto in Rete, Stella è ancora in carcere.
Le violenze domestiche sono un altro argomento tabù che sta ora emergendo come l’acqua sporca da una fogna troppo colma. È un tema trasversale. In ognuno dei Paesi finora coinvolti nel progetto ci sono artiste che spezzano il silenzio e la vergogna. Silenzio e vergogna imposti da una società patriarcale che – non solo le donne di giovane età – stanno cominciando ad abbattere.
Ne parlano le ghanesi Mariska Taylor-Darko in “Picchiare per amore” e Maame Afia Konadu Sarpong in “Non voglio sposarmi mai” (e qui la violenza “evolve” nell’omicidio, anzi nel femminicidio). Ne parla l’ivoriana Line Zokro nella sua “L’amore” che l’artista slameuse interpreta in modo struggente.
E molto spesso questa violenza diventa stupro, annullamento della donna attraverso la più terribile delle umiliazioni che le si possa infliggere. Il tema è toccato dalla togolese Afi Gbegbi Woetomenyui, che in “Le nozze dello stupro” mette in atto quella vendetta che rappresenta un atto simbolico per spazzare via l’oggetto stesso della violenza: l’evirazione.
E non è altro che uno stupro – legalizzato da culture femminicide – il matrimonio precoce. Ne parla, con grande partecipazione emotiva, la ghanese Afia Amoaa Oppong-Kwakye in “Bambina, non sposa”. Più ribrezzo ancora provoca lo stupro per lo stupro, finalizzato al piacere del maschio, al suo divertimento. Alla convinzione di poterlo fare perché alla donna è imposto il silenzio, subire e basta. Toccata dall’emozione è l’interpretazione della giovane Lillian Akampurira Aujo, “La mia sorellina“. Dolorosa invece quella di Rashida Namulondo (Uganda) in “Quando è giusto stuprare una donna?”. Un titolo spiazzante, ma che entra esattamente nelle intenzioni e nel modo di pensare degli uomini di una società malata. Una società che non condanna neanche chi stupra una bambina di otto anni.
Ma c’è un’altra consapevolezza ricorrente e – ripetiamo – trasversale, nei lavori delle poetesse che stiamo incontrando. La consapevolezza della propria africanità. Cosa vuol dire? Vuol dire che le donne – e in generale i giovani africani – leggono, si guardano intorno, comprendono, giudicano. E non danno e non prendono più nulla per scontato. Né vogliono più rivestire il ruolo delle vittime.
Quattro secoli di tratta degli schiavi e poi oltre 80 anni di colonialismo (se vogliamo fissarne la data alla Conferenza di Berlino) hanno evidentemente segnato non solo i territori e le economie ma le culture e le menti degli africani. Quando si parla di decolonizzare la mente, si parla non solo dell’uso della lingua (e del recupero delle lingue africane) come fa il grande Ngugi wa Thiong’o – e la lingua madre plasma il nostro approccio con il mondo – ma anche prendere coscienza e liberarsi da catene invisibili.
Quelle catene che ti fanno pensare che “bianco è bello” e che portare i capelli afro sia un segno di arretratezza. Ecco perché la moda delle parrucche dalle acconciature europee e delle creme sbiancanti è così diffusa tra le donne africane. Una moda criticata da molte che invece invitano a riflettere sulla propria peculiarità, la propria bellezza, i danni psicologici provocati dall’accettazione passiva e sminuente che “nero” è sinonimo di brutto, male, sbagliato.
È un argomento toccato dalla già citata Mariska Taylor-Darko in “Donna naturale” ma anche da Afia Amoaa Oppong-Kwakye che sulla propria pelle vive la questione del “colorismo“, sottile forma di discriminazione basata sulle “sfumature di nero” della carnagione. Quella discriminazione che l’attrice Lupita Nyong’o non ha esitato a definire un’altra forma di razzismo. Native Girl (questo lo pseudonimo di Afia) ne parla, ma con orgoglio, in “La regina della melanina“. L’ugandese Carolyne Afroetry si sofferma invece sul corpo delle donne africane, su quei pregiudizi che le vogliono “ipersessualizzate” e pronte all’uso e all’”abuso”. Eloquente il titolo del lavoro a cui ci riferiamo: “Ipersessualizzazione della donna africana”.
Interessante il tema delle “razze miste”, dell’essere meticci. Che è poi quello delle seconde generazioni nella nostra Europa. Argomento che riguarda tutti i Paesi africani dove la presenza da decenni di indiani, libanesi, cinesi – per citare i più numerosi – è molto marcata. Dall’Uganda si leva la voce di Roshan Karmali e della sua “Io sono“.
Liberarsi da pregiudizi e luoghi comuni sull’Africa e sugli africani vuol dire anche aprire gli occhi contro gli abusi di potere e l’inettitudine dei propri leader e non aver paura di ribaltare le “accuse”. “Accusiamo l’Occidente del marciume della nostra Africa./ Oh tu, negro!/Liberati/Da solo dei tuoi demoni” scrive la poetessa ivoriana Elisabeth Tanoh Nouman in “Feccia”. E lo stesso invito ad essere responsabilmente attivi nel costruire il futuro del continente lo rivolge Amina Mèlanie Bamba, in arte Amee e anch’essa ivoriana, in “Le mie parole”.
Le donne – queste donne che scrivono – sanno che la memoria è importante. Per questo affidano ai versi ricordi dolorosi, storie e traumi che niente potrà cancellare. Ma continuare a raccontare, lasciare così un segno dell’orrore, è non solo impegno con la Storia del proprio Paese e per le generazioni future, ma una forma di catarsi, di assorbimento della sofferenza.
È il caso del ventennio di guerra civile nel Nord dell’Uganda. Conflitto che ha cancellato l’infanzia di migliaia di bambini, “rubati” per diventare bambini soldato. Molti, moltissimi di loro imbracciando il fucile sono morti. Breve e drammatica è “Mio figlio Nok” di Beatrice Lamwaka. Così come ormai famoso è il testo di Harriet Anena, “Una nazione in travaglio“, sottile critica al regime coloniale britannico ma anche all’incapacità del Paese di trovare una sua strada corretta. Ed è il caso anche di Marjolaine Goue (in arte Holy Dolores) quando in “Vivere nonostante tutto” o “Per quale causa combatto?” racconta un recente periodo di guerra civile in Costa d’Avorio. “Per quale causa combatto?/Se devo uccidere mio padre/Stuprare mia madre/Mutilare chi considero fratelli o sorelle/E restare senza cuore.” Ma che in realtà esprime la maledizione di ogni conflitto.
Che siano versi classici, che sia slam, che siano spoken words molte artiste, poetesse, in Africa hanno trovato il modo di comunicare al mondo (e al loro mondo innanzitutto) che non hanno paura di parlare, criticare, svelare quello che ancora si vorrebbe tenere nascosto. Che non hanno paura di demistificare cose che ai loro occhi sono ormai intollerabili.
Incontrarle e conoscerle in questo loro cammino è un grande privilegio. Così ci sta bene concludere con parole di gioia e di ringraziamento a quegli africani che non si arrendono a nulla, “che rendono la tristezza parte della felicità” e che usano la risata (quella che nasce dal profondo del cuore) per riempire di speranza gli altri e il loro ambiente. Sono le parole di una delle più grandi poetesse ugandesi contemporanee, Susan Kigali. La poesia è “Amo la mia casa” dove il termine “casa” è esteso alla terra d’Africa e a chi la abita. Uomini e donne.