Voci Globali

Uganda, le periferie del mondo che non interessano a nessuno

Slum, campi per sfollati, orfani da ogni parte. Troppi bambini per le strade senza adulti, troppi adulti senza sguardo, troppe cose da capire. Troppa bellezza, persino. Questa è stata la mia prima esperienza in Uganda.

Poi ci sono tornata. Dopo undici anni.

Non sono lì per vedere se qualcosa sia cambiato. Non ci penso neanche, non è questo lo scopo. Però quando lascio la capitale, i suoi shop mall infestati di merce, i suoi club affogati di alcol e storie notturne, le sue colline colorate di hotel e di onde magnetiche, torna l’altro scenario, con alcune variazioni rispetto a un decennio prima. Ma che allo stesso modo non potrà lasciarmi libera quando sarò di nuovo lontana.

Accade in realtà ogni qualvolta lascio il centro e mi inoltro nelle periferie del mondo, quelle periferie che – guarda caso – sono spesso a ridosso di frontiere.

Quella verso il Sud Sudan è puntellata di campi rifugiati. Negli anni l’Uganda ha sostituito i centri per sfollati – quelli della guerra civile che per vent’anni ha sconvolto la vita degli Acholi (Nord Uganda) – con i campi e le capanne per chi ora proviene da un’altra guerra. Sono donne, soprattutto donne e bambini, che affollano questi luoghi che sanno di nulla. Che sanno di abbandono, di una pietà che manca, di un dolore che non ha espressione. La gente attende, non sa cosa.

Oh certo, attende la razione mensile dell’UNHCR, che qualche ONG arrivi e proponga un programma di formazione, la scuola per i bambini, un pozzo qui o là. Attende che, prima o poi – chissà – accada qualcosa, anche se quel qualcosa non sarà tornare a casa. Non c’è illusione, non c’è disillusione, c’è un lungo trascorrere di giorni che non ti appartengono più.

Sono di chi decide se domani verrai spostato in un altro campo, se la comunità locale – prima oppressi, oggi in qualche forma oppressori – ti permetterà di coltivare un pezzetto del suo campo -. I tuoi giorni sono di chi manda aiuti sotto forma di cibo, a volte contaminato. I tuoi giorni sono di chi non sa neanche che tu esisti. Però lì, da quei campi passano in tanti. In 4×4 e con il flaconcino di disinfettante nello zaino. Esperti delle Nazioni Unite, giovani volontari, giornalisti alla ricerca della storia edificante. Perché sì, da qui vogliamo storie positive. Non è abbastanza che questa gente abbia varcato un confine tra sangue e grida, che abbia lasciato l’anima laggiù, che viva nel nulla dove non ti appartiene neanche la capanna di terra e foglie. Non è abbastanza vivere, nonostante tutto. Non è abbastanza, vogliamo storie positive, mi hanno detto.

Qui ho incontrato una donna con i gemelli attaccati ai seni, uno da una parte, uno dall’altro. Ha alzato il braccio e con il dito mi ha indicato laggiù, casa, il Sud Sudan. Sì, proprio come ET indicava quell’altro mondo, il suo mondo, nello spazio. Hanno viaggiato tanto, ma la direzione, quella, non l’hanno dimenticata. Potrebbero ritornarci a piedi, se solo volessero. E potessero.

Ho incontrato una donna, un’altra, che mi ha mostrato un’ecografia e in quell’ecografia c’era un corpo estraneo. E sul foglio che l’accompagnava una sentenza che non sono riuscita a leggere. Accanto a lei il figlio, con una malattia che non ha saputo spiegarmi o io non ho capito. Ma poi ha detto: là c’è un bambino più ammalato del mio.

Ha voluto accompagnarmi – non avrei voluto – ma era giusto lì, due capanne più in là. L’altra madre mi ha mostrato documenti medici e ha alzato la maglietta del bambino. Aveva un pezzo di intestino fuori dal corpo. Mi ha stupito? Mi ha colpito? Mi ha disgustato? Sì certo. Ma quello non è stato il sentimento più forte. Quanta abbondanza di esami medici, analisi, diagnosi. E poi? Poi l’attesa. È così che ho capito cosa vuole dire essere inutili… Voltavo la schiena – io e le mie foto da collezionista della vita degli altri – e immaginavo una frase pensata da tutte quelle donne: queste persone sono inutili.

Chissà se davvero lo hanno pensato, chissà se lo pensano mai di tutti noi che andiamo, guardiamo e voltiamo i tacchi senza cambiare granché. Senza neanche la capacità di portare una donna o un bambino in ospedale. Perché c’è qualcun altro che ci penserà. I medici dei programmi ONU, la Croce Rossa, quella ONG con il programma mirato. Forse. O probabilmente no.

Sull’altro confine, quello verso il Kenya ci sono altri dimenticati, i Karamojong. Lo capisci che è un altro mondo ancor prima di entrare in uno dei loro villaggi e ancor prima capisci che quel mondo è ormai perso, compromesso. La donna anziana ti chiede del denaro, un gesto che imbarazza, così tanto che vorresti non essere passata di lì. Dov’è finito il popolo guerriero, il popolo nomade, il popolo altero?

 

I vent’anni di guerra civile con l’LRA e Kony che in sostanza minacciavano e distruggevano le vite della propria tribù hanno fatto comodo al Governo, che in realtà ha fatto sì che questo conflitto andasse avanti il più a lungo possibile per stremare e indebolire il popolo Acholi che ha dato sempre un po’ fastidio al potere e a cui oggi sta rubando le terre. Per la regione della Karamoja la questione è diversa, tutta questa povertà e ignoranza sono provvidenziali al Governo per tenere sottomessa una popolazione che non sa quanto ricco di risorse naturali sia il territorio dove vive.

La sintesi di un’amica ugandese mi sembra perfetta, meglio di tante analisi politiche. Dunque, in Karamoja. Eccomi qui, io venditrice di parole che non cambieranno nulla.

Per anni si sono fatti “i dispetti”, famiglie contro famiglie, tribù contro tribù, rubandosi il bestiame, invadendo territori. Poi, a un certo punto qualcuno ha portato i fucili: AK47, dal Kenya e dal Sudan. E così il conflitto è divenuto mortale. Anche qui decenni di massacri, fino al disarmo – fatto anche in questo caso di violenza da parte delle guardie nazionali – e fino a che sono arrivati i soliti programmi di sviluppo.

I pastori sono diventati stanziali, le donne dei pastori hanno cominciato ad aspettare i pozzi, i bambini e le bambine ad andare a scuola. Sporchi, senza cibo, senza sonno a sufficienza. Ma è un inizio. Una partenza. Per altri, molti altri, però, la partenza è stato un vero viaggio. Un lungo, lunghissimo viaggio da Moroto – uno dei distretti più popolosi di questa regione – verso Kampala. Verso un sogno. Un sogno interrotto bruscamente sulla strada, elemosinando tra piedi frettolosi che spesso ti prendono a calci.

Finché non arriva la polizia a fare retate di questi bambini di strada, metterli in centri di recupero (o riformatori) – dove sperimenteranno cose inimmaginabili, nell’attesa che qualche associazione o ONG se ne faccia carico e li riporti indietro nei loro villaggi. A far che, non importa. Ciò che importa è liberarsi di questa gente così selvaggia, malandata, incapace persino di comunicare in una lingua diversa dalla propria, e ancora vestita di quei suka che sanno di savane inospitali e puzzano di bestie.

Ma c’è di peggio – a dispetto di chi vuole storie positive e di successo -. Si è scoperto recentemente un giro di vendite ad una sorta di mercato degli schiavi. A portarlo alla luce reporter locali, che hanno raccontato e filmato una compravendita di giovani ragazze karamojong destinate a lavorare per facoltosi ugandesi della capitale o indiani, che in Uganda gestiscono molti affari, commerci, fabbriche. A chi interessano queste ragazze, a chi interessano queste storie periferiche? Scrivo con fatica perché so che non interesserà a nessuno. Di persone che – in un modo o nell’altro – hanno perso la propria identità. Non sanno più chi sono. O sanno che non saranno più quelli che erano. E questo è un dolore difficile da spiegare.

Non ti sorridono i karamojong, sfuggono al tuo obiettivo con la velocità di un’antilope, ti guardano da lontano con mille occhi e non ti fanno sentire benvenuto.

Fino a che non capita che un gruppo di donne cominci una danza, un canto, e tutto si trasforma. I volti si rilassano, i gesti, le occhiate. Il mondo torna ad appartenere a chi lo sta celebrando, a loro. E non importa se poi tornerà ad essere di chi obbligherà queste donne a spaccare pietre senza che ne sappiano il motivo, senza che conoscano il valore della montagna che stanno sventrando. E non importa se forse questo popolo – con le sue tradizioni, la sua lingua, la sua storia – pian piano scomparirà (perché è questo che stiamo facendo, cancellare storie e crearne altre a nostra immagine e somiglianza).

Non importa. Con questa danza, questo regalo inaspettato, mi hanno donato un pezzo di gioia, un pezzo della loro vita. Senza maschera, senza compiacenza a quello che gli altri si aspettano e vogliano che tu faccia, che tu diventi. Senza arrabbiarsi agli scatti della tua macchina fotografica, pur sapendo – o intuendo – che anche questa loro danza, questa loro libertà, sarà messa in vendita sul mercato della banalizzazione.

 

[Tutte le foto sono dell’autrice dell’articolo. Video ripreso al villaggio Naminam – Distretto di Moroto]

[Ringrazio la ONG Africa Mission – Cooperazione & Sviluppo per l’ospitalita nelle sue sedi di Kampala, Moroto e Adjumani. Ospitalità che mi ha consentito di conoscere luoghi, storie e persone che sarebbero state altrimenti inaccessibili]

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