[Traduzione a cura di Elena Intra dall’articolo originale di Sondos Al Ali e Nazik Awad pubblicato su openDemocracy]
Nota: mentre curavamo questo articolo, prima è circolata la foto iconica di Alaa Salah, donna simbolo delle proteste, e poi la notizia dell’arresto del presidente Omar al-Bashir.
Dopo 30 anni di oppressione e umiliazioni, le donne sudanesi stanno reagendo contro lo Stato islamista del Sudan.
A dicembre, di fronte alla peggiore crisi economica degli ultimi decenni, i pesanti aumenti del costo della vita hanno scatenato le proteste. Le famiglie povere sono state colpite duramente e questo ha spinto le donne che ogni giorno mettono il cibo in tavola, a organizzarsi tramite WhatsApp e Facebook e radunare le persone per sfidare il regime autoritario.
Da allora le donne hanno continuato a condurre dimostrazioni pacifiche per le strade, chiedere azioni di disobbedienza civile e sfruttare i social media per le proteste. Da tre mesi dottoresse, avvocate, studentesse, insegnanti e mamme casalinghe guidano la #SudanUprising, in quella che è la rivolta più potente contro il regime nella storia recente.
Ma la leadership femminile, come nel caso di altri innumerevoli contesti, viene raramente riconosciuta dai media. Quando se ne parla, le donne sono viste partecipare alle proteste come “congiunte” – piuttosto che essere rappresentate come leader.
Lo “Zagrouda“ (o il canto delle donne) è diventato il segnale di “richiamo” per le proteste nelle strade. Quando le persone sentono queste voci femminili sanno che si tratta di una chiamata alla rivoluzione e che è ora di iniziare la loro marcia.
Sia donne che uomini hanno affrontato coraggiosamente munizioni, lacrimogeni e pesanti manganelli di metallo usati contro di loro. Ma la maggior parte dei manifestanti uomini direbbe apertamente che sono le donne in prima linea ad averli incoraggiati a continuare a marciare.
Questo è un aspetto strettamente collegato alla cultura locale sudanese, in cui storicamente le donne cantavano e scrivevano poesie per sostenere gli uomini durante le guerre. Tuttavia, c’è un tocco moderno, più femminista, in questo ruolo tradizionale, perché in queste proteste le donne sono passate dalle retrovie all’avanguardia.
Non sorprende che siano le donne a condurre la lotta contro il Governo islamista del Sudan, dal momento che proprio loro sono sempre state il nemico principale del fondamentalismo religioso e politico del regime.
Le leggi sull’ordine pubblico e le leggi di statuto personale imposte dal 1991 impediscono alle donne di indossare quello che vogliono, lavorare o anche camminare per le strade come preferiscono, stabilendo allo stesso tempo norme restrittive come “la tutela maschile“ (male guardianship) e il dovere di “obbedienza della moglie“.
Inoltre, il presidente sudanese Omar al-Bashir è stato accusato dalla Corte Penale Internazionale di crimini contro l’umanità, in particolare per il suo ruolo nell’organizzazione di stupri di massa durante la guerra in Darfur, regione situata nell’ovest del Sudan.
Nonostante un mandato emesso per il suo arresto, continua a viaggiare liberamente, anche in Cina, Egitto, Giordania, Kenya e Arabia Saudita, rivelando una rete globale di Stati e leader che chiudono un occhio sugli abusi di al-Bashir sui diritti umani delle donne.
Per comprendere la rivolta in Sudan (#SudanUprising) occorre inserirla anche nel contesto regionale.
Nel 2015, membri dell’organizzazione Women Human Rights Defenders (WHRDs) provenienti dalla regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA) hanno fondato la nuova coalizione WHRDMENA allo scopo di fornire solidarietà e supporto, imparare le una dalle altre e, soprattutto, amplificare le reciproche voci che gli Stati spesso cercano di mettere a tacere.
Il regime del Sudan ha chiaramente seguito l’esempio dello Stato egiziano prendendo di mira le attiviste attraverso divieti di viaggiare, congelamento dei beni e azioni giudiziarie contro di loro. Ha seguito anche le orme dell’Arabia Saudita, detenendo attiviste e denunciando “coloro che cospirano” contro lo Stato e “cercano di attaccarlo“.
Le forze del Governo hanno anche attaccato ospedali e medici che hanno tentato di curare i manifestanti, mentre interrogavano e censuravano i giornalisti che riportavano le proteste – etichettandoli come “agitatori” per “incitamento all’odio contro lo Stato“.
Più recentemente, il 22 febbraio, al-Bashir ha annunciato un nuovo stato di emergenza di un anno al fine di estendere i poteri delle autorità di sicurezza di detenere i manifestanti e reprimere i raduni pubblici. Tuttavia, le proteste delle donne non mostrano segni di diminuzione.
La Coalizione WHRDMENA è a conoscenza di almeno 45 donne attiviste in Sudan che sono state messe in prigione negli ultimi tre mesi.
Tra loro, Ihsan Al Fagiri, fondatrice del gruppo per i diritti umani No to Women’s Oppression Initiative; l’esponente del WHRD, Hanadi Fadol; la dottoressa Heba Omer e Adeela Al Zaebaq, presidentessa del Sudanese Women’s Union, che erano tra le 40 donne rilasciate dal carcere l’8 marzo, Giornata internazionale della donna.
Il giorno prima, il 7 marzo, centinaia di donne sono scese per le strade di Khartoum per chiedere il rilascio di tutti i membri della WHRD detenuti e contrastare il regime fondamentalista religioso e i Fratelli Musulmani.
Hanno deliberatamente scelto di marciare di giovedì, non di venerdì (il giorno sacro musulmano), come è tradizione nei Paesi MENA (Medio Oriente e Nord Africa), e come hanno fatto i manifestanti durante la rivoluzione egiziana.
Lo stesso 8 marzo, le donne ancora detenute in carcere a Omdurman, la seconda città più grande del Sudan, hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la loro detenzione e chiedere la fine del regime di al-Bashir.
Anche i gruppi di giovani si sono organizzati e conducono proteste, incluse quelle iniziate nel campus dell’Università per le donne di Ahfad e che hanno poi portato migliaia di persone a manifestare nella capitale del Sudan, Khartoum.
Nel frattempo, le donne della diaspora sudanese stanno organizzando proteste di solidarietà, da Washington a Londra e Dusseldorf.
Nonostante le notizie apparentemente positive dei rilasci durante la Giornata internazionale della donna, appena il giorno successivo altre nove donne sono state condannate a 20 frustate e mandate in prigione secondo le leggi di emergenza recentemente emanate dal regime.
Anche due sorelle, Meriem e Rabbah Alsadiq, sono state arrestate quel giorno. Meriem è vicepresidente del National Umma Party (un partito politico che si oppone al regime).
Nel frattempo, la reazione contro le donne che difendono i diritti umani in Sudan si è estesa anche online, con agenti della sicurezza che hanno diffamato diverse donne su Internet chiamandole “prostitute” per essere scese in piazza.
Alcune di loro hanno documentato di essere state sottoposte a varie forme di violenza durante le dimostrazioni e in prigione – incluse violenze sessuali mirate a intimidirle e allontanarle dalla sfera pubblica e dalle proteste.
Questa crudele repressione delle attiviste in Sudan non deve essere vista come parte di un modello regionale imbattibile che fa eco all’Egitto e all’Arabia Saudita. Questa volta le donne devono vincere. Il mondo deve difendere queste coraggiose attiviste che stanno smantellando le strutture ingiuste del Sudan.
Bisogna ascoltare queste donne. Non verremo messe a tacere.