Le speranze del Sud Sudan sono tutte riposte nella tenuta e nell’attuazione del rinnovato accordo di pace (Revitalized Agreement on the Resolution of the Conflict in South Sudan).
Così è stata chiamata l’intesa firmata a settembre scorso ad Addis Abeba tra il presidente Salva Kiir, il leader SPLM-IO Riek Machar, il rappresentante di South Sudan Opposition Alliance (SSOA) Gabriel Chang Changson e il membro principale dello SPLM-FD, Deng Alor. Il ritorno del leader Machar a Juba dopo l’esilio è stata una delle prime manifestazioni del nuovo clima di collaborazione.
Riportare una pace duratura in questo giovanissimo Stato africano sarà un cammino lungo e difficoltoso. Cinque anni di guerra etnica, infatti, hanno disintegrato tutte le parti vitali del Paese, dai rapporti umani alle relazioni tra le diverse etnie, dall’accesso ai beni primari fino alle istituzioni e all’economia. L’esasperazione dopo un periodo così lungo di violenza e ingiustizia si è subito tradotta in speranza alla notizia di una firma per la pace: il popolo sud sudanese disperso in campi profughi interni e nei Paesi vicini è esausto.
Cosa stabilisce l’ultimo accordo tra le parti in Sud Sudan?
Innanzitutto, in attesa di nuove elezioni da tenersi nel 2022, viene stabilito un governo di transizione nel quale il presidente Kiir è affiancato da Machar come primo vice presidente e da altri quattro vicepresidenti a rappresentare anche gruppi di opposizione minoritaria. L’impianto dell’accordo è simile a quello fallimentare del 2015: cercare di costruire un governo di unità nazionale che metta insieme la disomogenea struttura etnica del Paese. Si è tentato, questa volta, di coinvolgere più rappresentanti di minoranza.
Ci sarà, inoltre, un comitato indipendente nominato dall’Autorità intergovernativa per lo sviluppo responsabile del delicato obiettivo di demarcare gli Stati federali del Sud Sudan, rispettando i territori delle diverse tribù. Un compito non facile, considerando le rivendicazioni di ogni gruppo e la diffidenza dell’opposizione nei confronti dei dinka, etnia di appartenenza di Kiir e, quindi, vista come privilegiata. Nello specifico, la commissione dovrà definire il numero di Stati, i loro confini e la loro composizione etnica entro 90 giorni dalla firma di settembre. Se non avrà terminato il suo lavoro nel tempo stabilito, si occuperà anche di un Referendum da indire nella Repubblica del Sud Sudan sulle questioni inerenti il numero e i confini degli Stati.
Rispetto rigoroso del cessate il fuoco del 1 luglio 2018, smilitarizzazione delle aree di interesse sociale come le scuole, graduale scioglimento di gruppi armati e formazione di un esercito nazionale e di corpi di polizia e di sicurezza unitari sono altri punti fondamentali dell’accordo, che prevede un iniziale periodo transitorio di otto mesi.
Intanto, i 90 giorni dalla firma di settembre accordati per impiantare i primi importanti punti dell’accordo sono appena scaduti. Il bilancio non è dei migliori. La pace sembra ancora in una fase di stallo e molti dei propositi sono rimasti solo sulla carta. Dal cessate il fuoco permanente, più volte violato, al rilascio immediato di tutti i prigionieri di guerra, fino all’identificazione delle forze armate da unificare, diversi sono gli obiettivi che nei tre mesi dall’accordo non hanno trovato adeguate risposte. La piena concretizzazione dell’intesa è auspicata da più parti, sia della società civile, sia di organizzazioni non governative operanti sul campo, che osservano i danni e i pericoli della mancata attuazione dell’accordo.
Gli eventi delle ultime settimane, infatti, evidenziano quanto la dimensione della pace sia ancora in fase iniziale di costruzione. Da una parte, i tentativi di lanciare messaggi distensivi non mancano. Il presidente Kiir ha incontrato una delegazione dei Former Political Detainees guidata dalla vedova Garang. L’evento è stato un segnale della volontà di lavorare per una stabilità reale.
Il capo di stato maggiore dell’esercito sud sudanese, il generale Gabriel Jok Riak e il vice capo dello staff dell’SPLA-IO, il generale James Koang Chuol Ranley, si sono uniti a molti sud sudanesi a Bentiu per celebrare il nuovo accordo di pace, il 24 dicembre scorso. La cerimonia ha coinvolto molti civili costretti da troppo tempo a vivere da sfollati nelle aree circostanti. Gli organizzatori hanno ribadito l’impegno a lavorare per cancellare definitivamente i segni di una guerra così lunga e brutale, cercando anche di risollevare il settore petrolifero, importante per l’economia della zona.
Nel periodo pre-natalizio, inoltre, Kiir ha incontrato Angelina Teny, presidente SPLA-IO del Comitato nazionale per la difesa e la sicurezza, per discutere degli steps da compiere per l’attuazione dell’accordo di pace.
Dall’altra parte, però, tensioni e violenze continuano. All’interno del gruppo di opposizione South Sudan Opposition Alliance (SSOA), per esempio, sono in corso dispute sulla nomina della presidenza, che stanno minando l’unità nella difesa dell’accordo, con il rischio di vedere assottigliarsi i sostenitori della pace.
Di maggiore gravità, inoltre, sono le frequenti violazioni dei diritti umani. Il Sud Sudan è ancora troppo vulnerabile a causa di aggressioni, stupri, attacchi incontrollati in vari villaggi dello Stato. Nel territorio federale Unity, l’estrema povertà costringe donne e bambini a percorrere sentieri pericolosi ogni giorno in cerca di cibo. Qui nel mese di novembre scorso, si sono succedute aggressioni e violenze sessuali.
Gli scontri hanno interessato anche le zone dell’Equatoria Centrale e Occidentale, dove si sono fronteggiate truppe governative e ribelli NAS, che osteggiano l’accordo. Anche se sporadici, attacchi recenti si sono verificati nella regione Upper Nile, provocando venti vittime. Numerosi sono stati i combattimenti in varie zone del Sud Sudan come Yei e la regione nord-est di Wau. Tensione alta, dunque, anche dopo la storica firma della pace.
Il Paese resta in una condizione disastrosa. Circa 400.000 sono le persone rimaste uccise dal 2013, anno di inizio della guerra. Più di 4 milioni di sud sudanesi sono sfollati e vivono in condizioni di assoluta precarietà all’interno del Paese o nei campi profughi degli Stati limitrofi. Sette milioni di persone necessitano di aiuti umanitari urgenti e l’80% vive al di sotto della soglia di povertà assoluta. La riduzione della produzione cerealicola è stata del 25% tra il 2014 e il 2017, con un deficit di 500.000 tonnellate di grano per il 2018.
Le prospettive per il 2019 parlano di bisogni sempre crescenti. La metà della popolazione si troverà in una condizione di insicurezza alimentare nei primi mesi del nuovo anno. Inoltre, malattie come meningite, epatite E e il virus ebola, sono destinati a diffondersi in alcune zone più vulnerabili e disagiate, in un Paese che l’Organizzazione Mondiale della Sanità considera ad altissimo rischio. La scolarizzazione mancherà nel 2019 per circa 2,9 milioni di bambini e ragazzi e i bisogni medico-sanitari interesseranno quasi 4 milioni di abitanti.
La sfida per risollevare il Sud Sudan sembra impossibile. E non mancano voci scettiche sulla struttura del piano di pace. L’insistenza sulla divisione territoriale su base etnica, infatti, getta dubbi sulla tenuta unitaria dello Stato, reso fragile finora proprio dalla guerra tra tribù diverse. Si teme una ulteriore frammentazione di tipo regionale, veicolo di nuovi e vecchi risentimenti.
In più, il ruolo giocato dagli attori esterni nella conclusione dell’accordo – Sudan e Uganda in primis – fa crescere i sospetti di un’ingerenza negli affari interni dello Stato in guerra. Soprattutto per quanto riguarda le risorse petrolifere sud sudanesi, che il presidente sudanese Al Bashir fa passare nei suoi oleodotti allo scopo di trarne profitto.
Mentre si aspettano i segnali, anche fiochi, della pace, in Sud Sudan si sta dunque consumando la più grave tragedia umanitaria africana contemporanea.