26 Aprile 2024

Diritti Umani, 70 anni fa la promessa di giustizia sociale

Settant’anni. Quelli della Dichiarazione universale dei diritti umani. O dei diritti dell’uomo, per dirla meglio. Settant’anni, soprattutto a cavallo di due secoli, sono un tempo enorme. Fatto di cambiamenti, nelle società, ma anche nel modo di pensare. Ma quelli no, non dovrebbero cambiare, sono universali. Sono stati scritti per essere tali. Anzi, come certa filosofia ci spiegherebbe, sono universali perché sono inerenti all’essere umano. A tutti gli esseri umani.

E invece no. Imperfetta è l’applicazione di questi diritti “universali”, imperfetta fu persino la nascita di questa pietra miliare, venuta alla luce con difetti visibili forse più adesso che prima, visto che il mondo da allora è parecchio cambiato e molti sogni si sono frantumati aggrediti dall’onda della realtà.

Adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 con lo scopo di impedire in futuro il ripetersi degli orrori della Seconda guerra mondiale, appena conclusa, il documento venne approvato all’unanimità con soli 8 astenuti (Bielorussia, Cecoslovacchia, Polonia, Arabia Saudita, Ucraina, Unione Sovietica, Sudafrica e Jugoslavia). Allora gli Stati che facevano parte dell’ONU erano 56, un terzo di quelli di oggi.

Si era in pieno colonialismo e seppure interi battaglioni di africani avevano contribuito alle sorti della guerra questi non avevano ancora un proprio Stato, con un futuro ancora incerto di sottomissione e dipendenza. Le sole nazioni africane presenti erano Egitto, Etiopia (mai assoggettato al regime colonialista, anzi, una spina nel fianco dell’Italia dopo la clamorosa sconfitta di Adua), Liberia (Stato fondato dagli afroamericani di ritorno nella terra da cui erano stati strappati dai negrieri) e Sudafrica (in pieno apartheid, e questo spiega l’astensione al voto per l’approvazione della Dichiarazione). A spiegare l’astensione dell’Arabia Saudita, invece, c’era – e probabilmente c’è ancora – un fattore culturale laddove l’Islam ha sicuramente un ruolo prevalente rispetto alla laicità in ogni caso manifesta negli articoli della Dichiarazione. Pochi anche gli Stati asiatici presenti, in futuro anch’essi critici nell’approccio “troppo occidentale” ai diritti umani.

Trenta articoli con lo scopo di garantire giustizia, opportunità, dignità senza discriminazioni. Trenta articoli a rappresentare le fondamenta del rispetto della vita e delle necessità di ogni singola persona. Tanto che, negli anni, almeno un’ottantina di Carte, Trattati e altre Dichiarazioni – inclusa la Convenzione contro la tortura del 1984 e quella sui diritti dell’infanzia (1989) – hanno avuto origine da questi trenta articoli. Per sgombrare subito il campo da dubbi va detto che tale Documento rimane fondamentale ed essenziale se non altro come verifica dello stato dei diritti e della loro applicazione e come punto di riferimento ai continui assalti alla dignità umana privata appunto di quei diritti che si vorrebbero intoccabili e inalienabili.

Il problema rimane – oggi più che mai – la loro natura più idealistica che concreta. In passato analisi e critiche a questo documento ne sottolinearono sia il fatto di avere uno “spirito occidentale” – e di fatto la bozza redatta dal canadese John Humphrey aveva tratto origine “dal meglio dei testi dell’American Law Institute e dell’InterAmerican Juridical Committee“, come lui stesso ammise – sia il carattere fortemente individualistico dei diritti a discapito del senso di comunità, molto più vivo nelle culture africane, ma anche in quelle asiatiche. Insomma, universalità contro relativismo culturale.

Relativismo culturale in realtà preso poco in considerazione ai tempi, ma sulla cui mancanza di attenzione si è cominciato a pagare lo scotto. Perché negli anni una maggiore libertà di pensiero e di espressione e una lettura più ampia dei fatti storici ha portato anche a vedere i limiti di un‘impostazione che veniva da modelli e società che hanno fatto fatica – semmai è accaduto – ad aprirsi a mondi diversi dal proprio. Ecco perché negli anni altre Dichiarazioni sono nate nelle diverse aree geografiche. Citiamo, ad esempio, l’African Charter on Human and Peoples’ Rights (nota anche come Carta di Banjul) adottata nel 1981 dagli Stati africani aderenti all’Unione Africana.

Un tentativo di unificare le nozioni di comunità, diritti individuali e doveri (di cui invece la Dichiarazione Universale del ’48 non fa menzione) verso la famiglia, la comunità e lo Stato. Si specifica, ad esempio, il dovere dei figli di rispettare e provvedere al mantenimento dei genitori e quello dell’individuo di difendere l’indipendenza e l’integrità della nazione. Negli anni si è cercato di emendare la mancata attenzione alle comunità, alle particolarità e ai popoli indigeni, argomento rischioso visti i passati e presenti abusi e violenze a certe popolazioni in nome dello sfruttamento del territorio e del “progresso”, come le popolazioni dell’Amazzonia. È del 2007 la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni. Tra i Paesi che votarono contro la sua approvazione ci sono, guarda caso, gli Stati Uniti.

Altra forte debolezza della Dichiarazione del ’48 è data dalla mancanza di obbligatorietà, di fatto, degli Stati ad “aderire” se non idealmente ai principi enunciati. Anche le successive Convenzioni del 1966 sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali nella loro perfezione di principio rimangono spesso “tigri di carta”. Termine coniato ad indicare la loro forza e nel contempo debolezza.

Diritto alla vita, alla libertà, inclusa quella di espressione e di movimento, all’uguaglianza, alla giustizia. Sono tra i diritti garantiti – lo dice la Dichiarazione universale – a tutti gli uomini. Questa è la teoria. La realtà è stata già da allora – e continua ad essere – diversa. La Seconda guerra mondiale aveva provocato tra i 50 e gli 80 milioni di vittime, la maggior parte civili. Aveva dato vita ad un olocausto, aveva mostrato la faccia peggiore dell’essere umano. Tutto questo si doveva evitare nel futuro.

Eppure da quel dopoguerra ad oggi i conflitti si sono ripetuti – violenti, cruenti, impietosi. E si sono ripetuti i genocidi, le pulizie etniche e persino le carestie provocate artatamente per motivi politici, già arma di guerra nel periodo del Grande conflitto. E ci sono diritti che più che tali sembrano privilegi. Come quello di movimento, negato di fatto a milioni di individui, garantito a milioni di altri che grazie alla propria nazionalità – discriminazione bandita dalla Dichiarazione Universale – hanno diritto a passaporti, visti, e alla possibilità di cercarsi un lavoro ovunque gli aggradi. Potremmo citare tanti diritti negati.

Ma concludiamo con un articolo della Dichiarazione. Non il primo, ben noto a tutti, “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti […]” ma l’ultimo. Perché sono proprio gli Stati, le strutture sociali, economiche, politiche degli Stati, a determinare le condizioni perché i diritti umani rimangano un ideale per molti, un’utopia quasi. Anche se, ripetiamo, c’è estremamente bisogno che questo faro nell’oscurità rimanga acceso.

Articolo 30 – Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essa enunciati.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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