[Traduzione a cura di Davide Galati dall’articolo originale di Elizabeth Boakes pubblicato su The Conversation]
Quando “Sudan”, l’ultimo rinoceronte bianco settentrionale, è stato abbattuto all’inizio di quest’anno per sopraggiunti limiti di età, si è confermata l’estinzione di una delle (sotto)specie più simboliche della savana. Nonostante decenni di sforzi da parte degli ambientalisti, tra cui un falso profilo Tinder per l’animale, soprannominato “lo scapolo più ambito al mondo”, Sudan si è rivelato un partner riluttante e alla fine è morto – l’ultimo maschio del suo tipo. Restano sua figlia e sua nipote ma, a meno di qualche miracolosa tecnica di fecondazione artificiale, è solo questione di tempo.
Il rinoceronte bianco del Nord sarà sicuramente compianto, così come altre valide presenze dei libri illustrati, dei documentari e delle collezioni di pelouche. Ma che ne sarà delle specie a cui siamo meno affezionati o persino del tutto inconsapevoli? Saremmo pronti ad affliggerci per qualche oscuro genere di rana, fastidiosi coleotteri o antiestetici funghi? L’estinzione è, dopo tutto, inevitabile nel mondo naturale – alcuni lo hanno addirittura definito il “motore dell’evoluzione“. Perché dunque l’estinzione dovrebbe interessarci?
Prima di tutto, ci sono forti argomenti pratici contro la perdita di biodiversità. La variazione, dai geni individuali alle specie, conferisce capacità di resilienza degli ecosistemi di fronte al cambiamento. Gli ecosistemi, a loro volta, mantengono stabile il pianeta e forniscono servizi essenziali per il benessere umano. Le foreste e le zone umide impediscono agli inquinanti di penetrare nelle nostre riserve idriche, le mangrovie contribuiscono alla difesa costiera contrastando le mareggiate e gli spazi verdi nelle aree urbane riducono il tasso di disordini mentali degli abitanti delle città. La costante perdita di biodiversità danneggia sempre di più questi e altri fattori.
In quest’ottica, il danno ambientale causato dall’estrazione di risorse e i vasti cambiamenti che gli esseri umani hanno operato sul paesaggio appaiono estremamente rischiosi. Il mondo non ha mai sperimentato queste interferenze tutte allo stesso tempo, ed è piuttosto azzardato supporre di poter continuare a danneggiare il nostro pianeta e allo stesso tempo conservare i sette miliardi di umani che vivono su di esso.
Sebbene il saccheggio incontrollato delle risorse naturali dovrebbe certamente preoccupare coloro che hanno il coraggio di esaminarne le conseguenze, è bene specificare che l’estinzione è un problema a sé stante. Alcuni danni ambientali possono essere ripristinati, alcuni ecosistemi in pericolo possono essere rianimati. L’estinzione è irrevocabilmente definitiva.
Perdite ineguali
Gli studi sulle specie minacciate indicano che, osservando le loro caratteristiche, possiamo prevedere quanto è probabile che una specie possa estinguersi. Gli animali con corpi più grandi, per esempio, presentano un maggior rischio di estinzione rispetto a quelli di corporatura più piccola – e lo stesso vale per le specie in cima alla catena alimentare. Nel mondo vegetale, le piante epifite (come le felci, o le orchidee, che crescono su altre piante ma non come parassiti) subiscono un maggior rischio, così come la fioritura tardiva.
Ciò significa che l’estinzione non si verifica in maniera casuale all’interno di un ecosistema, ma produce effetti non proporzionali su specie simili che svolgono funzioni simili. Dato che gli ecosistemi fanno affidamento su particolari gruppi di organismi per particolari ruoli, come l’impollinazione o la dispersione dei semi, la perdita di uno di questi gruppi potrebbe causare grosse devastazioni. Si immagini una malattia che uccide solo professionisti del settore medico: sarebbe molto più devastante per la società di una patologia che uccide un numero simile di persone a caso.
Questo disegno non casuale si estende all’ “albero della vita” dell’evoluzione. Alcuni gruppi di specie strettamente correlati sono vincolati agli stessi ambienti minacciati (come i lemuri in Madagascar) o condividono caratteristiche vulnerabili (come i carnivori), il che significa che l’albero evolutivo potrebbe perdere interi rami piuttosto che una dispersione uniforme delle foglie. Alcune specie con pochi parenti stretti, come l’aye-aye o il tuatara, sono ulteriormente a rischio. La loro perdita danneggerebbe ancora più gravemente la forma dell’albero, per non parlare della cancellazione dei loro bizzarri e meravigliosi aneddoti di storia naturale.
La controargomentazione più tipica sostiene che non dovremmo preoccuparci dell’estinzione, perché è un “processo naturale”. Innanzitutto, sebbene la morte sia così, da questo non ne consegue che dobbiamo arrenderci docilmente ad essa (soprattutto non prematuramente o per mano di qualcuno).
In secondo luogo, i dati fossili mostrano che i tassi attuali di estinzione sono circa 1000 volte il tasso naturale. Sono acuiti dalla perdita di habitat, dalla caccia, dai cambiamenti climatici e dall’introduzione di specie e malattie invasive. Gli anfibi sembrano particolarmente sensibili ai cambiamenti ambientali, con tassi di estinzione stimati fino a 45.000 volte la loro velocità naturale. La maggior parte di queste estinzioni non sono registrate, quindi non sappiamo nemmeno quali specie stiamo perdendo.
Un costo incalcolabile
Ma è davvero importante che il mondo contenga meno tipi di rana? Prendiamo per esempio un’ipotetica rana africana marrone che si estingue perché i rifiuti tossici inquinano il suo corso d’acqua. Questa rana non è mai stata descritta dalla scienza, quindi nessuno è consapevole della sua perdita. Tralasciando per un attimo il collasso degli ecosistemi che deriva dell’estinzione di massa in corso, nello stile dei film di catastrofi, il valore intrinseco della rana è una questione di punti di vista. Si è evoluta nel corso di milioni di anni per adattarsi alla sua particolare nicchia – per noi, la perdita di quell’individualità perfettamente bilanciata rende il mondo un luogo meno interessante.
Ma è facile moralizzare sulla biodiversità quando non ci devi vivere a fianco. Il senso di meraviglia per la natura provato da una persona può essere fattore di tormento per un’altra – un orango che fa incursione nei raccolti di un povero contadino o un leopardo che rapisce il bestiame di un pastore. Anche gli agenti patogeni fanno parte del ricco arazzo della vita, ma quanti di noi piangono l’eradicamento del vaiolo?
Quindi, fino a che punto dovrebbe estendersi la nostra avversione all’estinzione? Non riusciamo a rispondere a questa domanda – ma come tutti i buoni dilemmi filosofici è una questione che riguarda tutti, e dovrebbe essere discussa nelle scuole, nei caffè, nei bar e nei mercati di tutto il mondo. Possiamo non essere tutti d’accordo, ma l’estinzione sta accelerando il passo, quindi un consenso e un’azione urgenti sono necessari se speriamo di riuscire a controllarla.
Pingback: Simbiocene, progettare il futuro oltre il pessimismo ambientale – Articolo21