28 Aprile 2024

Esodi, la web map sulle rotte dei migranti e delle loro tragedie

Foto del sito Esodi
Foto tratta dal sito ‘Esodi’

La navigazione in mare incrocia quella in Rete, sotto il segno della solidarietà basata sulla conoscenza.

Come inizio d’anno va ricordato uno dei progetti web più interessanti e utili del 2017: Esodiuna web map interattiva messa a punto da Medici per i diritti umani (Medu), Organizzazione non Governativa che opera nell’assistenza ai rifugiati, con l’obiettivo di migliorare le condizioni dei migranti in Libia.

In quasi quattro anni (dal 2014 al 2017) sono state radunate duemilaseicento testimonianze – con il supporto di video, grafiche e statistiche, di cui più della metà solo nel 2017.

La voce dei migranti a confronto con le rotte affrontate dall’Africa subsahariana all’Italia dà vita ad un progetto di narrazione corale sempre a portata di click: è quasi imbarazzante la facilità con cui si accede dal proprio PC alla tragica avventura di uomini e donne che portano addosso, iscritte nella mente e nella carne, le conseguenze dei loro viaggi in cerca di una vita migliore.

Rotte, quelle percorse dai migranti, durate circa 20 mesi (quelle occidentali) e 15 mesi (quelle orientali) e in cui – secondo le parole di uno dei testimoni, “non sei più considerato un essere umano”.

Le testimonianze sono state raccolte a margine degli interventi di prima assistenza medica, nei centri di accoglienza in Sicilia (Mineo, Ragusa), attraverso la clinica mobile di Medu a Roma, a Ventimiglia, e nei presidi al Cairo e ad Aswan.

Ecco quindi le parole di un ragazzo di appena 19 anni, che arriva dalla Nigeria, raccolte lo scorso ottobre:

Quando ho deciso di partire lo sapevo che non sarebbe stato facile ma non avrei mai immaginato che potesse essere così dura. Sono stato in Libia per otto mesi, due di questi li ho trascorsi in una prigione di Zawia. Mi hanno rapito perché volevano in cambio dei soldi. Io non avevo niente e non avevo nessuno a cui telefonare. Per questo alla fine mi hanno lasciato andare. Anche perché per lavorare non gli servivo a molto. Però mi hanno torturato tutti i giorni in quei due mesi. Venivano, mi picchiavano e io sapevo che non avevo niente da dargli. Ho pensato che questa volta non sarei sopravvissuto.

Oppure ancora quelle di una ragazza neanche ventenne, del Mali:

Nella mia vita sono stata sempre schiava. Quando avevo 16 anni la mia famiglia mi ha costretto a lasciare la scuola e a sposare un uomo che non amavo. Sono stata la sua schiava. Quando mio marito ha capito che non riuscivo a rimanere incinta si è accanito contro di me. Mi umiliava, mi picchiava e mi violentava e mi accusava di essere responsabile della mancata gravidanza, diceva che lo facevo con intenzione. Per questo sono scappata. Ma in Libia mi sono ritrovata a fare la schiava di nuovo. La donna che mi ha aiutato a scappare mi aveva promesso un lavoro in un ristorante. Invece quando sono arrivata in Libia sono stata venduta ad un uomo come schiava. Sono rimasta lì per un mese. Poi un ragazzo del Mali mi ha aiutato a scappare e dopo poco sono riuscita ad imbarcarmi per l’Italia.

O ancora quello di un altro ragazzo del Gambia:

Tre anni fa sono partito dal Gambia e mi sono diretto in Libia dove sono rimasto per tre anni. Due di questi li ho trascorsi in prigione. Sono stato rapito quasi subito dagli Asma Boys [bande armate che rapiscono i migranti per ottenere riscatti, NdR] e condotto in una prigione gestita da loro. Questi due anni sono stati molto difficili. In prigione mi hanno picchiato e torturato perché volevano da me dei soldi da versare come riscatto. Io non avevo soldi e non avevo nessuno a cui chiederli. Così mi hanno costretto ai lavori forzati, nel senso che lavoravo senza mai ricevere una paga. Per due anni ho fatto il saldatore. Le condizioni erano disumane. Non ci davano cibo né acqua per ore e non ci venivano fornite delle protezioni. Il mio corpo è pieno di cicatrici. Il ferro incandescente mi si attaccava addosso. Quello che mi salvava era la musica. Infilavo le mie cuffie alle orecchie e non ero più lì.

Una piccolissima parte di testimonianze – quelle raccolte dalla web map “Esodi” – rispetto alle 900mila persone – uomini, donne e bambini – sbarcate sulle coste italiane negli ultimi sedici anni, ma certo esemplificativa dei tragitti drammatici ed estremi di cui si parla nei media a fasi alterne, stringendo drammi esistenziali fatti di torture, detenzioni, sequestri, abusi gravissimi e schiavitù spesso in pochi minuti di commento.

La semplicità e la testimonianza diretta stanno alla base del progetto, che fotografa una situazione ancora lontanissima dall’essere affrontata e contrastata nella sua catastrofica portata.

Basti pensare che – stando ai dati raccolti da Medici per i Diritti Umani negli ultimi 4 anni – l’85% dei migranti arrivati dalla Libia ha subito torture e trattamenti inumani e degradanti.

Oltre ai disturbi fisici, nei pazienti visitati da Medu, si riscontrano spesso anche pesantissime conseguenze psicologiche: disturbi da stess post traumatico, depressioni, ansia e disturbi del sonno.

Disagi mentali che rischiano di cronicizzarsi e spingere il migrante poco o per nulla assistito alla marginalità sociale, da cui poi è difficile uscire. Perché spesso non ci sono né mediatori culturali né strutture adeguate pronte a fornire la necessaria assistenza.

Infine, non ci sono solo le torture e i soprusi vissuti direttamente. Nove migranti su dieci – praticamente quasi la totalità – ha affermato di aver assistito ad una uccisione, a una tortura, oppure a gravi percosse.

Esodi è una mappa in progress, che si arricchisce sempre di nuove testimonianze. Per ora, purtroppo, queste sono tutte accomunate da incredibili violazioni dei più elementari diritti umani. Ed è inaccettabile.

Elena Paparelli

Giornalista freelance, lavora attualmente in Rai. Ha pubblicato tra gli altri i libri “Technovintage-Storia romantica degli strumenti di comunicazione” e “Favole per (quasi) adulti dal mondo animale”.

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