25 Aprile 2024

Nativi digitali? Un falso mito. Come quello del multitasking

“Nativi digitali. Immigrati digitali. Net Generation. Generation I. iGeneration. Google Generation. App Generation.”

I termini coniati per battezzare generazioni di giovanissimi, giovani o giovani adulti cresciuti totalmente immersi nelle nuove tecnologie, o che di queste ne sono stati i primi e principali promotori, sono diversi, tutti modellati su presunte competenze tecnologiche giustificate da semplici dati anagrafici.

Il 1984 è la data spartiacque che Mark Prensky individuò nel suo celebre articolo “Digital Immigrants” (2001) per separare coloro che a suo avviso sono nati totalmente immersi nelle tecnologie digitali dai cosiddetti immigrati digitali, dalle competenze digitali non innate bensì acquisite.

Manifesto degli Stati Generali per Nativi Digitali a Bologna, 2014

Definizioni-ombrello, quelle di Prensky, talmente ampie da suscitare – nei successivi quindici anni – ampi dibattiti e discussioni sulle effettive abilità digitali degli uni come degli altri, messi sotto la lente di ingrandimento di molti ricercatori intenzionati a verificarne l’esatta fisionomia.

Ebbene: non pochi sono ad oggi gli studi che sembrano sfatare il mito dei “nativi digitali“, la cui competenza innata non sarebbe così omogenea nella fascia d’età considerata da Prensky; in molti casi, gli “aborigeni del computer” si limiterebbero infatti a un utilizzo passivo dei nuovi mezzi, per lo più opportunistico, senza una vera e propria conoscenza dei meccanismi profondi che ne sono alla base.

A smontare il mito dei nativi digitali – protagonisti del libro da più parti citato Homo Zappiens. Crescere nell’era digitale (Idea, 2010) dei due studiosi olandesi Wim Veen e Ben Vrakking, e al centro di una profonda trasformazione del sistema educativo e scolastico proprio in virtù del loro disinvolto consumo dei nuovi media – è stato l’olandese Paul A. Kirschner, che dei nativi digitali arriva a contestarne persino l’esistenza. Non solo: i progetti scolastici costruiti attorno a questo falso mito degli autoctoni del pc non farebbero che rendere l’apprendimento in realtà più lento e difficoltoso. La sovraesposizione agli stimoli ostacola l’efficacia dell’apprendimento.

Prendiamo un altro falso mito, quello del multitasking: secondo lo psichiatra E. Hallowell, il multitasking non sarebbe altro, infatti, che “un’attività mitica in cui le persone credono di poter svolgere due compiti contemporaneamente in maniera ugualmente efficace di quando ne svolgono uno soltanto”. Il cervello in realtà non sarebbe in grado di prestare attenzione a due compiti complessi contemporaneamente, esattamente come un computer, che fa sempre una sola cosa alla volta, anche se talmente velocemente da dare la sensazione di una simultaneità operativa, che è solo illusoria.

Chi fa più cose insieme, mediamente – questi i risultati degli studi citati – tende a farle meno bene, ma c’è di più: secondo le ricerche del prof Clifford Nass di Stanford, il multitasker avrebbe persino problemi a organizzare i pensieri; a filtrare le cose irrilevanti; a memorizzare ciò che ha trattato e a subire continue distrazioni. In definitiva, il tanto osannato multitasker non fa che rendere più scadente il proprio lavoro, nonostante si sforzi di restituire l’immagine di una persona iper efficiente.

Quella dei rischi del multitasking è in verità una questione non nuova: qualche anno fa alcuni ricercatori dell’Università del Sussex avevano verificato come alcune persone particolarmente multitasking presentassero una minore densità della materia grigia nella corteccia cingolata anteriore, quella che presiede al controllo delle funzioni cognitive ed emotive.

Le distrazioni sensoriali ed emotive mentre il cervello è impegnato in più compiti allo stesso tempo sono difatti sempre in agguato; per questo Linda Ray, Managing Director di NeuroCapability, parla di “intelligenza attentiva” per indicare un tipo di intelligenza che va allenata e potenziata per permettere di concentrare l’attenzione dove e quando vogliamo. Cosa che non è scontata né automatica come si potrebbe pensare.

Del resto, su questo punto si sono soffermati diffusamente Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà nel libro “Una cosa alla volta. Le regole dell’attenzione” (Il Mulino, 2016)

La questione dell’insegnamento ai nativi digitali come proposta da Veen e Vrakking sarebbe  dunque un falso problema: la presenza di diversi dispositivi tecnologici nelle scuole di per sé, lungi dal favorire i processi di apprendimento, non farebbe che aumentare il rischio di distrazione e dispersione degli studenti: per questo dovrebbe rientrare fra le competenze degli insegnanti il sapere come e quando usare le nuove tecnologie per sfruttare il loro potenziale all’interno del sistema educativo stesso, in favore dei nativi digitali, ma non solo.

Ma, come è facile intuire, il problema sta tutto nelle scarse competenze degli insegnanti, in media più apocalittici che realmente integrati.

Elena Paparelli

Giornalista freelance, lavora attualmente in Rai. Ha pubblicato tra gli altri i libri “Technovintage-Storia romantica degli strumenti di comunicazione” e “Favole per (quasi) adulti dal mondo animale”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *