[L’autrice di questo articolo, Carolina Carta, sta completando il Master in giornalismo dell’Università di Groningen, Olanda. Il passaggio finale e integrante dei suoi studi prevede una tesi e un Internship che Carolina sta svolgendo con Voci Globali.]
Sta sollevando opinioni contrastanti “Fino all’osso”, la nuova pellicola di Netflix rilasciata lo scorso 14 luglio, che parla di anoressia. Le polemiche vertono principalmente intorno alla potenziale pericolosità dello show, che fornirebbe agli spettatori già a rischio di sviluppare un disturbo alimentare gli “strumenti” sufficienti ad innescarlo (ad esempio, il conteggio ossessivo delle calorie di un qualsiasi pasto).
Questo articolo vuole però muovere una critica diversa e soffermarsi su un aspetto dei disturbi del comportamento alimentare (DCA) che resta spesso inesplorato. La protagonista della serie, Ellen, è una ragazza bianca che vive in una cittadina americana. Così come bianchi e occidentali sono gli altri ospiti del centro di ricovero dove la ventenne si reca per intraprendere il processo di guarigione, fatta eccezione per un’unica ragazza nera, personaggio secondario.
I disturbi alimentari sono gravi malattie mentali: i due maggiormente conosciuti sono l’anoressia e la bulimia, insieme ai meno noti – benché più diffusi – binge eating disorder e NAS (“Disturbi Alimentari Non Altrimenti Specificati”). Tutte queste patologie generano nell’individuo che ne è affetto un’alterazione delle abitudini alimentari e una costante preoccupazione nei confronti del cibo. Si stima che siano 70 milioni gli individui a soffrirne nel mondo. Possono condurre a gravissime ripercussioni fisiche – come osteoporosi, problemi cardiaci, infertilità – e psicologiche – ansia, depressione, oltre che alla morte, che sopraggiunge a causa delle complicazioni fisiche o per il suicidio del sofferente, spesso schiacciato emotivamente dal peso della malattia.
Nell’immaginario comune, la rappresentazione mentale immediatamente associata ai disturbi dell’alimentazione è quella di una giovane donna bianca, perlopiù appartenente a un elevato status sociale. I media hanno sicuramente corroborato questa visione – si pensi all’etereo personaggio della serie cult “Skins“, Cassie, un’adolescente britannica affetta da anoressia nervosa che incarna tutti gli stereotipi ad essa correlati. “La gente non sa molto dei disturbi alimentari e li considera una faccenda da ‘ragazzine ridicole che vogliono diventare modelle’”, osserva B. C. Belladona, autrice di “Reflejos Peligrosos” (Riflessi Pericolosi), libro ispirato alla sua lunga tribolazione con un disturbo alimentare e alla sua permanenza in un centro di ricovero.
La realtà è però molto diversa. Come spiega Sanjay Chug, psichiatra indiano esperto in disordini alimentari, queste patologie vanno ben al di là dell’aspetto esteriore: “Molti pensano che avere un disturbo alimentare significhi semplicemente non mangiare. Ma questa è soltanto la punta dell’iceberg. In realtà è la manifestazione di complessi disagi psicologici”. Si tratta appunto di malattie mentali, che non discriminano in base all’etnia, al contesto socioculturale, allo status economico, al Paese di provenienza.
Nel corso degli ultimi anni il mondo della medicina ha adottato una visione organica dell’eziologia dei DCA e presta sempre più attenzione alla loro componente biologica e genetica. Infatti, la causa di queste malattie, le più letali tra tutti i disturbi psichici, non è univoca, bensì attribuibile ad una combinazione di fattori – genetici, psicologici, culturali e ambientali – la cui interazione contribuisce al loro sviluppo e aggravamento. Certo la pressione sociale e gli impulsi esterni incidono ma non ne costituiscono l’unica matrice, spiega B. C. Belladona.
D’altro canto, l’opinione pubblica sembra continuare a individuare nel contesto sociale in cui l’individuo affetto si trova, la sola causa dei disturbi alimentari. Primo esempio fra tutti è l’influenza dei media occidentali – le riviste, il cinema e le serie televisive – che, proponendo ripetutamente l’immagine di una donna caucasica dalla figura esile, “impongono” standard di bellezza pressoché irraggiungibili. L’inseguimento spasmodico di questo modello genera insoddisfazione nei confronti del proprio corpo, e una conseguente alimentazione disturbata. Circoscrivere la causa dei disturbi alimentari a questo fattore è limitante e porta all’erronea convinzione che tutti coloro che non rientrano in questi canoni siano esenti dai DCA. Diversamente dalle credenze comuni, ad essere colpiti sono anche gli afroamericani e coloro che abitano nei Paesi dell’Africa o dell’Asia.
Sebbene la ricerca su questo versante scarseggi, studi dimostrano che anche nei Paesi del Sud del mondo vi è un certa incidenza dei disturbi alimentari. Non sentiamo parlare spesso di anoressia nei villaggi dell’Africa Sub-Sahariana, probabilmente perché queste zone non vengono associate agli standard occidentali. Il dottor Chug imputa tali lacune al secolare tabù legato alla salute mentale nel Sud del mondo, oltre ad un supporto professionale insufficiente e inadeguato. Questo fa sì che vi sia un numero esiguo di casi riportati ai medici e che i disturbi alimentari vengano trascurati. Tuttavia, questi si possano sviluppare anche in contesti diversi da quelli occidentali e in etnie diverse da quella caucasica.
Uno studio effettuato su un campione 668 studentesse di due scuole secondarie in una regione rurale del Nord-Est del Ghana, già nel 2004 si era posto l’obiettivo di capire se l’anoressia nervosa effettivamente esiste in una cultura in cui la pressione ad essere magri a tutti i costi è meno pervasiva rispetto ad altre aree del mondo. 10 ragazze erano risultate “patologicamente sottopeso” a causa di un digiuno auto imposto. Un modo, secondo le pazienti, per esercitare un certo autocontrollo, raggiungere standard morali, religiosi e accademici in linea con il proprio perfezionismo e sopperire ad altri campi della propria vita di fuori del proprio controllo. Risultati illuminanti, che dimostrano che i casi di anoressia possono verificarsi in qualsiasi regione del mondo, sebbene in forma diversa da quella prevista e nota nel mondo occidentale.
A tal proposito, è bene soffermarsi sulla relatività di certi criteri diagnostici. Secondo l’ultima versione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-V, 2013) una condizione necessaria a rilevare l’anoressia nervosa nell’individuo è un'”intensa paura di aumentare di peso o di diventare grassi, o persistere in comportamenti che interferiscono con l’aumento di peso anche quando questo è significativamente basso“.
Curiosamente, tra le ragazze ghanesi esaminate, il timore di ingrassare risultava assente. Pur presentando caratteristiche fisiche e comportamentali dell’anoressia nervosa (digiuno auto-imposto, peso ben al di sotto degli standard raccomandati, perfezionismo), non riferivano alcuna preoccupazione in termini di aumento di peso. Allo stesso modo, uno studio risalente al 1993 condotto su ragazze cinesi, ugualmente affette da anoressia nervosa, contrassegnava una divergenza tra “diagnosi occidentale” e la “realtà orientale“. Sebbene le ragazze riportassero tutti i sintomi peculiari dell’anoressia – come l’amenorrea, ossia la scomparsa del ciclo mestruale – soltanto una minima parte di loro evidenziava un rapporto conflittuale con il proprio aspetto fisico e con il proprio peso. La diagnosi è una cosiddetta “non-fat phobic anorexia nervosa“, una forma della malattia che in Occidente sarebbe probabilmente rientrata nella categoria residua dei disturbi alimentari atipici (NAS).
Una più recente review scientifica del 2016, ha portato alla luce questo divario, oltre a una preoccupante carenza di dati sui disturbi alimentari nel Sud del mondo e soprattutto in Africa. Secondo questa panoramica soltanto quattro articoli fornivano dati specifici su anoressia, bulimia e NAS nel continente africano.
Diffondere l’idea che soltanto una ristretta fascia della popolazione mondiale possa andare incontro a queste patologie può mettere a rischio le persone che non si sentono di rientrare in questa categoria, come le persone di colore e le popolazioni del Sud del mondo.
Spiega bene il disagio e lo stigma del non rientrare negli schemi prefissati della malattia, sia medici che culturali, Stephanie Covington Armstrong, autrice del libro “Not All Black Girls Know How to Eat – A Story of Bulimia” (Non Tutte le Donne Nere Sanno Come Mangiare – Una Storia di Bulimia). Come testimonia in un programma radiofonico di qualche anno fa, Covington Armstrong non soltanto ha dovuto affrontare le sofferenze della bulimia e dell’ostracismo da parte della propria comunità (che non vede di buon occhio una magrezza eccessiva); l’autrice si è dovuta scontrare anche con ripetute mancate diagnosi, dal momento che “le donne afro-americane non soffrono di disturbi alimentari“, come continuavano a ripeterle i medici. Nello stesso podcast denuncia un’estrema difficoltà per le persone della comunità afro-americana che combattono con un DCA di chiedere e ricevere aiuto: “è come se [noi donne di colore] non esistessimo“.
La bulimia, come il resto degli altri disturbi alimentari, non nasce necessariamente dal desiderio di cambiare il proprio corpo. La causa scatenante è spesso un disturbo preesistente – come ansia, depressione, un trauma o una violenza subiti. La restrizione o l’abuso di cibo fungono soltanto da metro di auto validazione, da valvola di sfogo di un malessere interiore.
“Sono stata vittima di bullismo, ho iniziato a mettere in dubbio me stessa e continuavo a domandarmi perché le persone intorno a me non mi accettassero”, racconta B. C. Belladona. “Tutto ciò al punto da diventare una persona morbosamente perfezionista e con una scarsissima autostima – cercavo controllare tutti i miei problemi attraverso il cibo”. Condizioni che possono verificarsi in ragazze di tutto il mondo, indipendentemente dall’etnia e dal Paese di origine, e che meritano un equo trattamento medico.
È perciò necessario sensibilizzare la società sul fatto che tutti hanno diritto a ricevere aiuto, spiega Chug, non soltanto coloro che rientrano in una specifica categoria. “Ogni condizione emotiva che interessi l’individuo a livello psicologico, occupazionale e sociale, va necessariamente esaminata da uno specialista. Uno non deve aspettare di essere etichettato dalla definizione di un manuale per poter cercare aiuto“, conclude il medico. Allo stesso modo, il consiglio di B. C. Belladona a chi è afflitto da un disturbo alimentare è chiedere aiuto a uno psicologo che possa analizzare il caso specifico, ma anche quello di scacciare l’immagine della “donna magra e bianca”: poiché non si tratta del colore della pelle, ma di essere accettati, e soprattutto, di accettarsi.
Numero Verde nazionale dedicato ai Disturbi Alimentari: 800.180.969. Sito Web: http://www.chiediloqui.it/