19 Marzo 2024

Hate speech, tecniche educative e di controllo del fenomeno

Le parole contano. Sono leggere quando lodano, sono macigni quando insultano. Contano al punto che da alcune frasi possono nascere litigi, contrasti, crimini. Per questo parlare di hate speech, “discorso d’odio”, oggi deve essere una priorità. Frasi e strali che incitano alla discriminazione e all’intolleranza su base razziale, religiosa, sessuale, di genere sono all’ordine del giorno, in netta crescita a partire dal 2014 quando l’UNAR, l’Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali, ha iniziato a registrarne i casi online. Nel primo anno, infatti, sono stati segnalati 270 commenti contenenti espressioni razziste sui social network e sui media. In concomitanza con la “crisi dei rifugiati” il fenomeno è cresciuto a livello europeo, al punto che è stato possibile individuare alcune caratteristiche trasversali di chi tende a commentare e diffondere messaggi d’odio.

Proprio per far fronte ad un fenomeno in crescita, il Consiglio d’Europa, attraverso la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, ha incentivato gli Stati ad agire “vigorosamente” per aumentare la consapevolezza pubblica riguardo ai pericoli derivanti dall’incitamento all’odio e per dimostrare la falsità delle basi su cui questo si fonda e si stabilizza. L’appello, contenuto nella Raccomandazione relativa alla lotta contro il discorso dell’odio del 2015, stimola gli Stati ad agire concretamente affinché ogni forma di discriminazione razziale sia contrastata ed eliminata, coerentemente con il diritto internazionale che tutela i diritti umani.

Sempre a livello europeo è stato adottato, nel giugno 2016, un Codice di condotta UE con l’obiettivo di rendere più veloce ed efficace la verifica dei commenti d’odio. In Italia, l’ente che ha raccolto il testimone della lotta europea è l’UNAR che, nel 2016, ha istituito l’Osservatorio Media&Internet che si occupa proprio del monitoraggio dei casi di hate speech online,. Tuttavia resta critica la sostanziale disomogeneità delle leggi nei vari Stati membri dell’UE, ancora ben distanti da un’effettiva armonizzazione. [Se ne parlerà in un prossimo articolo]. 

Inoltre, il rapporto #SilenceHate, redatto nell’ambito del progetto BRICkS Against Hate Speech, evidenzia come non vi siano argomenti “sicuri”. Ogni tema può essere oggetto di commenti d’odio, ma quelli che sembrano stimolarlo maggiormente sono gii articoli o i post che toccano l‘emotività e i casi di violenza. Gli strali dell’hate speech sono, generalmente, diretti nei confronti di migranti, stranieri, donne e omosessuali. Il soggetto che esterna il proprio odio online può essere uomo o donna, vivere in qualsiasi Regione d’Italia, ma il sentimento prevalente è la rassegnazione, la rabbia o l’aggressività.

Ciò che emerge dalla ricerca condotta da Sgw proprio sull’hate speech è che il 58% degli intervistati ritiene che si tratti di un fenomeno diffuso e pervasivo in Rete, ma la tendenza è a bollare l’hater come un “leone da tastiera” con cui non vale la pena interloquire. Tuttavia, come ben sottolinea su Pagina99 Massimo Mantellini, non è Internet a farci odiare. L’ambiente mediale online replica dinamiche e rapporti di forza reali: “L’odio che osserviamo non è quello dei cosiddetti ‘leoni da tastiera’, strani esseri antropomorfi degni del Manuale di Zoologia Fantastica di Borges, ma il nostro, quello banale delle nostre carte di identità. Quello della nostra poca cultura, dei libri che non leggiamo, della modesta classe dirigente che riusciamo a produrre. Il linguaggio di Matteo Salvini o quello di Beppe Grillo sono il nostro linguaggio, al quale, forse, un brillante comunicatore web ha aggiunto il cinismo necessario per renderlo più incisivo.

Una vignetta di Altan dedicata al tema tratta da pensierocritico.eu

Ecco allora che emerge, da un lato, quella che gli anglosassoni chiamano digital literacy, ovvero l’educazione al mondo digitale che dovrebbe partire già dalle scuole, dall’altro la necessità di agire concretamente per arginare l’hate speech. Come sottolinea nuovamente dal rapporto di BRICkS against hate speech, un ruolo fondamentale è quello svolto dalla moderazione dei commenti. Social media manager e giornalisti, in questo senso, possono arginare il dilagare di discorsi d’odio e interagire con gli haters. È il caso del, così definito, “eroico” social media manager di UNICEF Italia che, proprio in questi giorni, ha deciso di rispondere singolarmente a tutti i commenti e i tweet contro le organizzazioni che salvano i migranti nel mare Mediterraneo.

Questo atteggiamento dovrebbe, però, essere la normalità e non un’eccezione da prima pagina. In alcuni casi, in Belgio per esempio, le testate giornalistiche incoraggiano gli stessi lettori ad avere un ruolo attivo nel contrasto dei commenti discriminatori. I redattori stimolano direttamente la propria community ad essere essi stessi filtri contro gli abusi. Tuttavia il giornalista stesso viene incoraggiato a non odiare: per sostenere l’attività professionale in questo senso, l’Ethical Journalism Network ha promosso un test in 5 punti al quale ciascun reporter dovrebbe sottoporsi prima di riferire e riportare eventuali dichiarazioni di hate speech; COSPE onlus ha, invece, promosso un decalogo per community e social media manager.

Anche i cittadini, però, possono fare la loro parte per contrastare il fenomeno. In primo luogo, possono intervenire direttamente cercando di dissuadere l’aggressore, senza sottovalutarne il potenziale dannoso. Infatti, prendere con leggerezza i tanti commenti violenti e discriminatori che si leggono, ignorandoli, può comportare una conseguente cattiva valutazione di ciò che si nasconde dietro al commento e dell’impatto che una determinata opinione può avere sul comportamento dell’hater.

Secondo quanto consigliato dagli attivisti del No Hate Speech Movement è cruciale anche evitare di porsi sullo stesso piano e con lo stesso tono del nostro interlocutore affinché si eviti di inserirsi in una spirale di violenza verbale e verbosa che non condurrà da nessuna parte. L’ideale sarebbe elaborare una risposta educata e ironica, sottolineando l’inopportunità del commento in questione o la falsità del dato riportato. Infatti, è una buona soluzione anche incoraggiare l’hater a leggere altri articoli che spieghino nel dettaglio perché l’opinione d’odio è fondata su elementi falsi.

Fonte: BRICkS Against Hate Speech/Facebook

Un altro strumento prezioso nelle mani dei cittadini che frequentano quotidianamente il web è il manifesto del progetto Parole O_stili, il primo decalogo per contrastare l’hate speech in Italia. I promotori sottolineano come sia fondamentale considerare l’ambiente virtuale come una sfaccettatura del reale e, di conseguenza, i toni usati e le opinioni espresse non debbano distanziarsi in maniera sostanziale. Evitare l’aggressività e prediligere il dialogo sono altri due punti di questo manifesto contro l’odio che si appella ai dettami del buon senso e dell’educazione che, su Internet, talvolta sembrano mancare. Forse proprio a causa della carenza della digital literacy.

In questo senso, alcuni passi avanti sono stati fatti anche nelle scuole. La Regione Emilia-Romagna, per esempio, ha recentemente pubblicato un “Quaderno di appunti ed idee operative per educatori e insegnanti” che raccoglie l’esperienza svolta in alcune scuole medie. L’obiettivo del progetto era promuovere la comunicazione interculturale e sensibilizzare i ragazzi ai commenti d’odio, fornendo loro non solo gli strumenti per riconoscerli, ma anche per contrastarli attivamente.

Si tratta ancora di piccoli passi, come anche il Codice di condotta europeo contro l’hate speech promosso dalla Commissione europea, che segnano la direzione che è necessario prendere per arginare attivamente un fenomeno dai contorni non completamente delineati, ma dalle conseguenze pericolose. Sarà abbastanza? È presto per dare una risposta certa, quello che, invece, sottolineano in maniera unanime tutti gli attori impegnati in prima linea è la necessità di una partecipazione e un coinvolgimento di ampi settori della società. Ricordando sempre che le opinioni si possono discutere e che l’odio non è un’opinione, ma che le persone, invece, vanno rispettate sempre.

[Dopo aver evidenziato la dimensione educativa connessa alla lotta contro l’hate speech, siamo tornati a occuparci del tema in questo articolo, per approfondire la questione normativa e come alcuni Paesi si sono dotati di alcune leggi specifiche per contrastare la diffusione dei discorsi odio e di discriminazione online]

Angela Caporale

Giornalista freelance. Credere nei diritti umani, per me, significa dare voce a chi, per mille motivi, è silente. Sogno di scoprire e fotografare ogni angolo del Medio Oriente. Nel frattempo, scrivo per diverse testate, sono nata su The Bottom Up.

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