A meno di 30 giorni dall’insediamento, il nuovo corso Trump continua a suscitare critiche e controversie. Tra possibili violazioni etiche e costituzionali, “scandali russi” e leak illegali, ordini esecutivi e blocchi giudiziari, prosegue il balletto di nomine e abbandoni del potenziale gabinetto. E se l’opinione pubblica stenta a seguire scenari politici in caduta libera, l’altrAmerica continua ad alzare il tiro.
Dopo gli scioperi localizzati dei giorni scorsi – dal “Day Without Latinos” (“Giornata senza latino-americani”) a Milwaukee, Wisconsin, alla chiusura delle tante drogherie gestite da yemeniti-americani a New York City – venerdì la protesta è divenuta nazionale, con la “Giornata senza immigrati” (“A Day Without Immigrants”) tenutasi a Washington, DC. Evento che ha coinvolto anche rinomati ristoranti e locali della capitale (come il tweet del noto @ChefJoseAndres qui sopra).
Pur se lo sciopero non fa parte della cultura operaia made in Usa, si tratta di un segnale importante per l’ampliamento del variegato fronte in disaccordo con la nuova svolta politica del Paese. E anche se non si prevedono grosse cifre a livello nazionale, in alcuni Stati a forte presenza di ispanici si teme che “centinaia di studenti non andranno a scuola e molti lavoratori assenti non verranno pagati”, come scrive il Santa Fe New Mexican. Né mancano le forti critiche (anche dei politici statali) ai raid in corso contro immigrati illegali che hanno commesso reati e che invece finiscono per colpire onesti lavoratori e perfino chi è in possesso di carta verde o cittadinanza Usa.
L’iniziativa poggia comunque su campagne spontanee che hanno tratto forte spinta soprattutto grazie ai gruppi su Facebook e vari hashtag su Twitter, in aggiunta ai più tradizionali volantini e passaparola. Obiettivo di fondo è dare visibilità al forte sostegno che i lavoratori immigrati garantiscono da anni all’economia Usa, in particolari quelli provenienti dai vari Paesi dall’America Latina, legali o meno che siano.
Proprio nel settore occupazionale va sottolineato un importante successo del fronte anti-Trump: il ritiro della candidatura di Andrew Puzder a Ministro del Lavoro. Pezzo grosso dell’industria del fast-food , Puzder era accusato di tollerare violazioni sulla sicurezza e molestie sessuali nelle sue catene di ristoranti (come Carl’s Jr.), oltre che di violenza domestica contro la ex-moglie (nel 1990).
Quest’ultimo non ha anzi esitato a mettere il dito nella piaga:
La caduta di Puzder conferma quel che milioni di persone opposte a Trump sapevano da tempo: quest’Amministrazione è un pasticcio incompetente zeppo di vulnerabilità incontrollate che punta a servire i propri interessi ai danni della salute, della sicurezza e del benessere del Paese.
Temi questi che interessano da vicino la vasta comunità latino-americana, come rivela l’ultima puntata del settimanale radiofonico Latino Usa, sulla rete nazionale NPR. Dove il neo Presidente Usa viene definito senza mezzi termini come Caudillo-in-Chief, cioè l’uomo forte populista nella scia di Pinochet, Noriega, Chávez, Perón. Scenario alquanto familiare per molti cittadini latino-americani, ma che trova del tutto impreparati i “gringos”. Lo conferma una riflessione di Steve Levitsky, docente di Harvard che studia i regimi autoritari sudamericani: “Una crescente somiglianza tra l’America Latina e gli Stati Uniti oggi: il populismo è il prodotto dell’ineguaglianza sociale”.
Ma c’è ancora tempo per organizzarsi e spazio per essere ottimisti, come sottolinea Gennaro Carotenuto (ricercatore in Storia Contemporanea presso l’Università di Macerata) in un’analisi a tutto campo caldamente consigliata:
Trump entra alla Casa Bianca nel momento peggiore per la regione, nel declino della fase integrazionista del decennio passato. L’America latina oggi è più debole. Le destre sono tornate o si apprestano a tornare a governare, ma i movimenti sociali e le esperienze politiche del primo quindicennio del XXI secolo rappresentano amplissime minoranze anche dove, come in Argentina, i blocchi popolari hanno perso elezioni senza esserne però usciti delegittimati. Tornare a vincere non sarà facile, ma siamo ben lungi dalla disperazione degli anni Novanta nell’epoca del pensiero unico.
Insomma, se è vero che Trump punta a stravolgere i limiti del potere esecutivo pur di imporre restrizioni e giri di vite, non sembra però tener conto né degli altri poteri costituzionali né degli effetti-boomerang a lungo raggio. Incluso il fatto che, pur nel cinismo della fluidità moderna, c’è sempre meno gente disposta a sopportare la sua irrefrenabile tendenza a dire bugie.
Non a caso già nel 2015 il sito di fact-checking Politifact gli assegnava il premio “Lie of the Year”, e oltre a quelle della campagna elettorale, parimenti fasulle sono buona parte delle sue ultime dichiarazioni pubbliche. Tendenza confermata dalla conferenza-stampa semi-improvvisata di giovedì scorso, infarcita di “fake news” (sulla vittoria elettorale “senza precedenti”, sul “penoso stato della nazione ereditato”, ecc.) e attacchi ai media (“stampa disonesta”, con l’eccezione di Fox News).
Confusione e approssimazione che hanno sconcertato non pochi, come suggeriva il successivo dibattito su Twitter, mentre la copertina del prossimo Time si spinge oltre: “Nel caos della Casa Bianca di Trump”. Tutto ciò forse per distogliere l’attenzione dal rampante Russiagate o magari da nuovi colpi di scena in arrivo?
Comunque sia, finalmente parecchie testate mainstream hanno deciso di definire come tali le bugie di Trump. Un passo importante, rimarca un recente editoriale di Margaret Sullivan sul Washington Post, intitolato ”Sembra che mentire non conti più nulla” e con una conclusione di taglio opposto:
C’è un motivo preciso per dubitare che si debba continuare a offrire una piattaforma costante a questi bugiardi incalliti: la verità è importante.