Bangladesh, piantagioni di tè e sfruttamento
Le piantagioni di tè in Bangladesh sono state, per decine d’anni, di quasi esclusiva proprietà della Corona inglese. Dopo l’indipendenza del 1971 hanno oggi nuovi proprietari: bengalesi, pakistani, indiani e ancora inglesi, scozzesi. Tuttavia le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici non sono migliorate molto da allora.
Nei campi di tè le foglie vengono strappate dagli arbusti a mano, un lavoro compiuto pressoché esclusivamente dalle donne (apparentemente perché hanno mani più piccole e delicate), un lavoro usurante dal tramonto all’alba, in piedi, per circa trentacinque anni prima di ottenere una piccola pensione.
Le famiglie che lavorano nelle piantagioni vivono al loro interno, nelle case “donate” dalle compagnie del tè, quasi tutte in lamiera con tetto in amianto (ancora legale in Bangladesh), il che ha portato a un aumento esponenziale dei tumori.
Nonostante le continue lotte delle unioni dei lavoratori, le paghe sono ancora bassissime: 35 taka al giorno (circa 40 centesimi di euro). Grazie all’intervento di associazioni per i diritti umani, in alcuni casi si è riusciti a portare la paga a 90 taka (un po’ più di un euro al giorno), ma anche nelle piantagioni più generose lo stipendio non supera mai i 50 euro al mese.
Il Bangladesh è il decimo Paese al mondo per la produzione di tè: più dell’80% viene esportato in Pakistan che poi lo vende a sua volta. La maggior parte dei lavoratori sono indù, minoranza religiosa qui spesso perseguitata, in un Paese a maggioranza musulmana. Molti di loro hanno discendenze indiane e furono deportati qui dagli inglesi durante il periodo coloniale.
Il giornalista britannico Francis Rolt, visitando queste piantagioni nel 1991 scrisse:
Le piantagioni di tè sono amministrate con un’estrema gerarchia: quelli che le possiedono e gestiscono vivono come degli Dei, distanti, intoccabili e incomprensibili. Alcuni di loro hanno addirittura cominciato a credere di essere Dei, così fanno esattamente tutto quello di cui hanno voglia”.