Trump e Sanders: transizione confusa vs. ‘rivoluzione gentile’

A oltre un mese dall’elezione presidenziale forse più clamorosa della storia Usa, visto dall’interno il quadro generale rimane nebuloso: tutto a posto e niente in ordine. Le grandi testate proseguono nel processo di normalizzazione, o almeno ci provano, seguendo l’assemblaggio del Trump Team (inclusivo di vari “nemici del pianeta“, secondo alcuni ambientalisti) e le ultime uscite del neo Presidente su Twitter (una mezza pacchia, almeno finché dura, dove i rilanci sono ampi e garantiti e soprattutto si evitano domande o confronti diretti, come invece nelle conferenze stampa).

Comunque sia, il punto è riportare l’attenzione della gente sulle faccende quotidiane e personali, quelle che interessano davvero: lo shopping natalizio, i play-off di football, la cronaca mondana. Nella società dello spettacolo non mancano certo le distrazioni. Ancor più in un Paese confuso e rabbioso com’è indubbiamente l’America di oggi.

Distrazioni tra cui rientra in buona sostanza si la vicenda delle cosiddette “fake news” sia la “storia esplosiva” della longa manus degli hacker russi a favore di Trump nella campagna elettorale (pur se ormai esistono pochi dubbi in tal senso). Costui ha subito definito “ridicolo” l’esito delle indagini della Cia, sostenendo trattarsi solo di un’altra giustificazione per la sconfitta di Hillary Clinton – fregandosene delle spaccature istituzionali che così va acuendo e che non è affatto detto sia prone a ricucire in futuro.

Chiaro che gli Usa hanno alle spalle una lunga storia d’interferenze nelle elezioni e negli affari interni di molti Paesi, per cui il fatto (vero o presunto che sia) non stupisce più di tanto. E mentre parlamentari Democratici e Repubblicani chiedono a gran voce l’indagine parlamentare (checché ne dica il neo Presidente), le testate indipendenti insistono, giustamente, sull’urgenza di prove precise a sostegno di tali voci anonime, né manca chi la prende con un briciolo di sano sarcasmo, come rivela questo tweet:

the CIA protesting a right wing president being installed by a foreign power might be the funniest thing that has ever happened.

Neon Trotsky (@neontrotsky) December 10, 2016

[la Cia che sostiene che un presidente di destra è stato eletto con l’aiuto di una potenza straniera può essere la cosa più divertente mai successa].

In questo clima politico opaco e confuso, qualche raggio di luce arriva da Bernie Sanders. Accantonata la debacle elettorale, il senatore indipendente si è Bernie Sanders, "Our Revolution"subito rimboccato le maniche lanciando la piattaforma-progetto Our Revolution e tornando nelle strade del Paese per ricompattare la base democrat, soprattutto quella giovanile. Le sue “town hall” e soprattutto le presentazioni dell’omonimo libro (fresco di stampa e già nei primi 10 best-seller del New York Times) vanno attirando folle di cittadini pronti a darsi da fare.

A conferma la voglia di cambiamento dal basso in questo momento delicato, pur se con gli scarsi appoggi della cultura mainstream e degli stessi politici democrat. I quali ribadiscono così di non voler imparare l’ennesima lezione: più le élite restano nelle loro torri d’avorio (o di cartapesta), ignorando quel che sente e pensa davvero la gente, e più si creano scollamenti propizi all’ascesa del populismo in stile Trump.

Oltre a riassumere l’andamento della sua campagna per distratti e assenti (incluso un bell’inserto con decine di foto a colori), il libro di Sanders (450 pg., appena letto) dettaglia cause, dati e configurazioni degli ambiti sociali in piena crisi: economia, istruzione, sanità, cambiamento climatico, giustizia e immigrazione. E sintetizza così il senso di questa Agenda for a New America tesa ad attuare una “rivoluzione gentile” basata sulla partecipazione popolare:

Non riusciremo a raggiungere quest’obiettivo se consideriamo la democrazia uno sport da spettatori, presumendo che altri possano impegnarsi al posto nostro. Non è così che funziona. Il futuro è nelle vostre mani. Diamoci da fare.

Proprio in questo filone di impegno civile a tutto tondo si pongono due iniziative in corso. La prima – avviata da Lawrence Lessig, docente di diritto alla Harvard University, con la nascita del gruppo “Electors Trust” – punta a convincere i membri repubblicani dell’Electoral College a votare secondo coscienza, anziché assegnare automaticamente tutte le preferenze a Trump (visto che Clinton ha ottenuto quasi tre milioni di voti in più). Ciò in base al principio “una persona un voto” applicato pressoché da tutte le democrazie del mondo (il voto diretto) e nel pieno rispetto della stessa Costituzione Usa, dove non si stabilisce affatto che al vincitore di uno Stato vengano poi assegnati tutti i delegati (bensì in percentuale). Al momento una ventina di delegati GOP starebbero considerando di non votare per Trump il 19 dicembre, con possibile effetto a catena, mentre cresce l’attenzione di politici, esperti e giornalisti.

Infine, è in pieno fermento (soprattutto online) l’organizzazione della Women’s March on Washington, per portare oltre 200.000 persone a Capitol Hill la mattina di sabato 21 gennaio 2017. Il punto è coinvolgere svariate organizzazioni a livello nazionale, per ampliare la presenza di donne di colore, LGBTQ, musulmane, ecc. e conquistare visibilità sui media mainstream (che ovviamente si guardano bene dall’informare in merito).

Come spiega Linda Sarsour, co-responsabile dell’evento: “L’Amministrazione Trump si preannuncia come un incubo. È importante dimostrare che noi donne non abbiamo paura”. Pur se le stesse organizzatrici chiariscono che l’evento va ben oltre l’agenda anti-Trump, trattandosi di “donne di ogni estrazione sociale che si ritrovano assieme, pensando al futuro“. In fondo, le vere battaglie e l’attivismo diffuso cominceranno davvero a partire dal 21 gennaio 2017.

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Bernardo Parrella

Traduttore, giornalista, attivista (soprattutto) su temi relativi a media e culture digitali, vive da anni nel Southwest Usa e collabora con progetti, editori e testate italiane e internazionali (@berny).

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