Con l’ondata emotiva seguita all’elezione di The Donald alla Casa Bianca, non sono state poche le testimonianze razziste anche sui social.
Mentre già escono testi che indagano sul substrato culturale che ha portato un outsider assoluto, impegnato nella campagna elettorale più aggressiva della storia americana, a diventare presidente. Due libri di narrativa – con stile e taglio diversissimi – hanno dato voce, nella maniera più profonda e complessa, alla questione razziale, che ancora mostra le sue ferite in un’America sempre più rabbiosa e cinica.
I libri in questione sono “Tra me e il mondo“ di Ta Nehisi Coates (Codice Edizioni, 2016) e l’altro è “Lo Schiavista“ di Paul Beatty (Fazi editore, 2016)
Entrambi hanno visto i loro autori salire agli onori della cronaca: Ta Nehisi Coates è stato ritenuto da Time una voce “essenziale”, e dal New York Times “essenziale, come l’acqua e l’aria”. Paul Beatty, dopo aver fatto molto discutere, si è aggiudicato il Man Book Prize 2016.
Due generazioni, quella dei quarantenni (Ta Nehisi Coates) e quella dei cinquantenni (Paul Beatty) che raccontano – in modo diverso – che no, l’America non è affatto entrata nella fase post-racial e che la pesante eredità della schiavitù allunga ancora la sua ombra ingombrante nel rapporto fra bianchi e afroamericani. Tante etnie diverse mescolate insieme, ma manifestazioni estreme di discriminazioni e razzismo parlano di una situazione a rischio continuo di sfuggire di mano.
Ta-Nehisi Coates sceglie la strada dell’autobiografia, narrando in una lunga lettera le vicende della sua infanzia (nato a Baltimora, una città tanto violenta quanto razzista) al figlio Samori, appena quindicenne.
Appena poche righe, e già è chiaro il taglio che sceglie, diretto, duro, incisivo: “Ti scrivo nel tuo quindicesimo anno, perché questo è l’anno in cui hai visto Eric Garner strangolato per aver venduto delle sigarette; perché adesso sai che Renisha McBride è stata ammazzata mentre chiedeva aiuto… E perché adesso sai, mentre prima lo ignoravi, che i dipartimenti di polizia del tuo Paese sono stati investiti dell’autorità di annientare il tuo corpo. Non importa se quella distruzione è il risultato di un eccesso involontario. Non importa se ha la sue radici in un’incomprensione. Vendi sigarette senza il permesso e il tuo corpo potrà essere distrutto”.
Paul Beatty (nato a Los Angeles e attualmente residente a New York), viceversa, tenta di ritrarre la lower middle class nera statunitense ricorrendo alla satira alla Jonathan Swift (quello de “Una modesta proposta”, per intenderci). “La più lacerante satira americana da anni”, secondo il The Guardian – scegliendo un taglio provocatorio e caustico, inventandosi un linguaggio nuovo fra il romanzo e lo stand up comedy, pungente e a tratti divertente quanto può esserlo uno scritto che si esercita su un doloroso paradosso.
L’incipit è spiazzante: “So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato”.
La trama, in questo caso, traccia il sentiero alla lingua utilizzata, con un tono pieno di verve e trovate brillanti.
Il protagonista, un giovane nero di nome Me Bonbon, arriva davanti alla Corte Suprema perché accusato di aver voluto restaurare la schiavitù.
Bonbon si adopera nel ripristinare la segregazione razziale quando Dickens, un ghetto della periferia di Los Angeles dove il protagonista è nato e vive, viene cancellato dalle mappe, complice il boom immobiliare di inizio secolo alimentato da speculazione e gentrification.
Scomparsa la minuscola cittadina (e morto l’eccentrico padre, ucciso dalla polizia), il protagonista vede evaporare la sua infanzia e – in un moto di ribellione contro lo Stato – tenta l’esperimento di rivitalizzare un senso di comunità fra gli afroamericani cercando di far tornare l’apartheid.
Un antieroe a suo modo che percorre la strada inversa rispetto a quella percorsa dai miti del riscatto afroamericano: visto che storicamente l’integrazione etnica è fallita, pensa lui, tanto vale che gli afroamericani guardino all’autoghettizzazione “come scelta e paradossale diritto”.
I due testi – “Lo schiavista” e “Fra me e il mondo”– usciti a poca distanza l’uno dall’altro, si inseriscono nella medesima tradizione letteraria, quella dei “racconti di schiavitù“, tradizionalmente raggruppati secondo tre distinte linee (racconti di redenzione grazie alla religione; racconti ispirati alla lotta per la vittoria dell’abolizionismo; racconti che narrano della battaglia dell’autore stesso per una vita migliore).
La letteratura con tema schiavitù ha avuto spesso una diretta ricaduta politica e sociale: “La Capanna dello Zio Tom”, uno dei libri che tutti conoscono, tanto per dire, sensibilizzò a tal punto gli americani sul tema della schiavitù dei neri che quando Abraham Lincoln incontrò l’autrice, Harriet Beecher Stowe all’inizio della guerra civile americana, pare che le avesse rivolto queste parole: “Allora questa è la piccola signora che ha scatenato questa grande guerra”.
Ma quanto oggi libri come “Lo schiavista” o “Fra me e il mondo”, possono incidere in profondità nella pancia dell’America, suscitando nuove consapevolezze e prese di distanza rispetto all’esplodere di nuove ondate di razzismo in tutto il Paese?
Il disincanto dell’intellettuale è molto forte: per Coates “in America vige la tradizione di distruggere il corpo nero: è ereditaria”. E l’incolumità fisica dell’uomo di colore non viene mai garantita. Dunque un padre può solo rendere consapevole il figlio dei pericoli irrazionali che corre, ogni giorno, per imparare a proteggersi.
Beatty, dal canto suo, caratterizzato da una prosa così sfrontata e provocatoria, non si considera neppure uno scrittore satirico, perché la parola “satira” applicata al romanzo è “una scorciatoia per deviare dal cuore e dai nodi del testo. È facile celarsi dietro l’umorismo””
E colpisce il fatto che neppure il pubblico durante i suoi reading – come riportato dal Guardian – sappia se sia lecito o meno ridere di quanto legge, visto il delicato tema trattato, che pone al centro una piaga, quella del razzismo, ancora aperta. Spia di un malessere nutrito di tabù e reticenze collettive.
La denuncia aperta di Coates che parte dal suo vissuto (“in America distruggere il corpo nero è una tradizione, è parte del retaggio”, scrive), invitando il popolo americano a pretendere più da se stesso (a cominciare dal garantire ai neri l’incolumità fisica), si affianca alla scrittura pungente e audace di Beatty, inesauribile nel sollevare domande, prima di tutto sul senso che diamo alla parola “progresso”.
Ma resta da vedere come questi ultimi esempi di letteratura della schiavitù riescano a lavorare sulle angosce e sui sensi di colpa di un Paese confuso e rabbioso come l’America di oggi.