Quegli sporchi finanziamenti europei per fermare le migrazioni
Se l’accordo dello scorso marzo con la Turchia aveva sollevato un polverone, già quello dello scorso ottobre con l’Afghanistan ha trovato meno spazio sui media. Ancor meno rilevanza ha sull’agenda l’attitudine a replicare accordi del genere con i Paesi dell’Africa Subsahariana, tuttavia l’Unione Europea, promotrice degli accordi, sembra stia attuando una strategia molto chiara per affrontare la crisi in cui l’ha gettata il flusso di richiedenti asilo attraverso le sue frontiere: l’esternalizzazione del problema.
La logica prevalente sembra essere la seguente: meglio avere migliaia di persone bloccate in alcuni Paesi “fidati” dove vivono in condizioni molto precarie, che accogliere una parte di essi negli Stati membri.
Non si tratta di una strategia nuova, infatti storicamente l’interlocutore dell’Italia e dell’Unione Europea per attuare questa strategia era la Libia. Basti ricordare il Trattato italo-libico di amicizia firmato nel 2008 dall’allora capo del Governo Silvio Berlusconi con Mu’ammar Gheddafi.
I dati del ministero dell’Interno, riportati nel Rapporto SPRAR 2010/2011, fotografano gli effetti dell’accordo: nel 2008 sono arrivate in Italia, via mare 36.951 persone, nel 2009 sono state 9.573, nel 2010 solo 4.406. Numeri irrisori se si pensa che, ad oggi, sono arrivati 168.348 profughi sulle coste italiane nei dieci mesi del 2016, dato analogo allo scorso anno.
L’alleanza è stata messa prevedibilmente in crisi, prima dalle rivolte contro il Raìs e dopo, dalla forte instabilità politica che caratterizza la Libia. Oggi, Italia ed Unione Europea agiscono ancora nell’ottica del controllo securitario della frontiera del Mediterraneo centrale.
L’interlocutore privilegiato è il Governo di Tripoli, sostenuto anche in nome della lotta contro il terrorismo internazionale: come riporta Antonio Morone in un’analisi della questione pubblicata dall’ISPI, l’Italia ha fornito al Governo libico di Tripoli tecnologia, qualche mezzo e un’attività d’intelligence finalizzata al coordinamento del monitoraggio dei flussi in partenza da terra e gli interventi di recupero in alto mare delle navi di Mare Nostrum.
Si trattava in un’anticipazione di quello che è stato previsto nell’ambito dell’Operazione Sophia, che sostituisce Triton che, a sua volta, aveva sostituito Mare Nostrum. E lo scorso 26 ottobre è stato avviato un percorso di formazione della Guardia Costiera libica finalizzato al contrasto del traffico di esseri umani, ma contestualmente ha come effetto anche il blocco dei barconi prima che arrivino nelle aree di competenza europee.
Sebbene la Libia svolga ancora oggi un ruolo fondamentale nel controllare e tenere lontano il flusso dei migranti dal territorio europeo, le difficoltà della guerra civile e l’instabilità endemica dell’area hanno portato l’Italia e l’Europa a rivolgere lo sguardo altrove per tutelarsi dalla tanto millantata “invasione” dei migranti.
Con lo sguardo rivolto a Sud, i Paesi membri dell’Unione Europea hanno siglato a Roma, il 28 settembre del 2015, un accordo con i rappresentanti di alcuni Paesi del Corno d’Africa (Eritrea, Somalia, Etiopia e Gibuti) e di alcuni Paesi di transito (Sud Sudan, Sudan, Tunisia, Kenya ed Egitto) dando vita al “Processo di Khartoum“, la cornice entro la quale implementare una politica comune d’azione contro il traffico di esseri umani.
Gli obiettivi sono molteplici: collaborare per combattere il traffico di esseri umani, intervenire sui fattori scatenanti dell’emigrazione, rafforzare le frontiere e le Polizie nazionali, garantire percorsi più strutturati per chi emigra, tutelando le fasce più vulnerabili e i richiedenti asilo. Tra gli obiettivi c’è, ancora: sostenere lo sviluppo sostenibile nei Paesi d’origine e di transito, creare strategie comuni di lotta alle reti criminali che gestiscono il traffico di migranti, regolare i flussi migratori e là dov’è possibile prevenirli, promuovere progetti di scambio e capacity building. Accolto e promosso con entusiasmo dalle autorità coinvolte, alcuni studiosi hanno presto rilevato diverse criticità.
In primo luogo, esistono interessi divergenti tra i vari Paesi coinvolti. Inoltre, il Processo integra (e legittima) alcuni regimi come quello eritreo o quello somalo che portano migliaia di persone ogni anno a lasciare i propri Paesi. La collaborazione con Paesi “non sicuri” non offre garanzie sulla tutela dei diritti umani all’interno di quegli stessi Paesi, né indicazioni attendibili su come effettivamente verranno impiegate le risorse, economiche e non, fornite dall’Europa.
Appare lecito domandarsi in che modo il quadro internazionale dei diritti umani nonché il rispetto del diritto d’asilo possano essere esercitati, in concerto, dall’Unione Europea, che annovera i diritti dell’uomo tra i propri principi fondanti, e il “governo” di Isaias Afewerki, al potere in Eritrea dal 1991, Paese da cui scappano ogni mese circa 4.000 persone. L’Italia, d’altro canto, svolge un ruolo di primo piano nei negoziati con Asmara, anche dal punto di vista economico: dovrebbero essere italiani 2,5 dei 312 miliardi di euro di aiuti previsti entro il 2020.
Questo tipo di ragionamento sembra essere affossato da una logica di realpolitik che mira ad allontanare la frontiera “scomoda”, realizzando una versione dello “scaricabarile” in versione relazioni internazionali.
“Il Processo di Khartoum, osserva il ricercatore Nick Grinstead, facilita il trasferimento del peso che rappresenta la gestione concreta dei confini europei ai Paesi africani attraverso il finanziamento di progetti che promuovono la sicurezza dei confini, l’aggiornamento delle legislazioni nazionali, la distruzione o lo smantellamento delle reti di trafficanti in Djibuti, Egitto, Eritrea, Etiopia, Kenya, Sudan, Sud Sudan e Tunisia.”
Il tutto senza che esistano, almeno nel framework del Processo, sistemi di monitoraggio dello sviluppo preventivato, né di verifica dell’effettiva attuazione delle riforme previste. In sintesi: l’Unione Europea paga, i Paesi africani agiscono. Anche in deroga ai principi di rispetto dei diritti umani.
Le ricercatrici Maimuna Mohamud e Cindy Horst in un intervento su African Arguments pongono una questione non marginale e ancora senza risposta: l’Unione Europea, attraverso questa variazione di approccio alla politica di questione dell’immigrazione, otterrà che i Paesi coinvolti ospitino più rifugiati o ne creino? Un ulteriore timore delle due studiose è che il “Processo di Khartoum” fornisca un quadro di legittimità, nonché un precedente significativo, per l’implementazione della medesima strategia.
Una preoccupazione presto confermata dalla presentazione del “Migration Compact“, il pacchetto di politiche sull’immigrazione proposte dal Governo Renzi all’Unione Europea. Il documento mette al centro della strategia l’accordo con Paesi terzi per la gestione del fenomeno. Le misure previste ricalcano il modello dell’accordo con la Libia e replicano questo sistema nel quale l’UE fornisce finanziamenti e forniture tecniche in cambio di sforzi per bloccare il transito dei profughi.
Come osserva Fulvio Vassallo, si sta realizzando “una vasta rete di rapporti bilaterali nell’ambito dei quali ciascun Paese cerca di spuntare il massimo vantaggio non solo nella direzione del controllo dei movimenti delle persone ma soprattutto nelle relazioni politiche e commerciali, nell’ambito delle quali la mobilità della forza lavoro e la questione dei richiedenti asilo vengono avvertite come variabili dipendenti, continuamente modificabili, in base alle esigenze del mercato e non certo in base al doveroso rispetto dei diritti fondamentali della persona.”
Diritti umani, diritto d’asilo, democrazia sono concetti fortemente marginalizzati nello sviluppo delle politiche europee in questo ambito. Nessuna menzione del fatto che chi dovrebbe occuparsi della costruzione e della gestione di campi appartiene ad élites corrotte e autoritarie, né al fatto che è difficile prevedere come verranno impiegate le ingenti somme destinate loro dai Governi europei.
In questo senso dovrebbe fare scuola la vicenda di come i milioni di dollari raccolti da Bob Geldof in occasione del Live Aid, insieme ad alcuni finanziamenti britannici, siano serviti – a suo tempo – a realizzare una vasta operazione di deportazione di una parte della popolazione etiope dalla regione di Gambella.
Il paradosso e l’ipocrisia delle politiche italiane ed europee sulle migrazioni, dall’accordo bilaterale con la Libia al Migration Compact, è che in nome dell’aiuto umanitario e del rispetto dei diritti umani, si agisce per fermare il traffico soltanto in teoria.
La realtà è che migliaia di persone vengono relegate, lontano dagli occhi, alla mercé di regimi autocratici e Polizie le cui violazioni dei diritti umani vengono denunciate da moltissimo tempo. L’approccio alla cooperazione dell’Unione Europea era caratterizzato proprio dal rispetto dei diritti umani come principio irrinunciabile, ma sta mutando ponendo al centro il controllo dei flussi umani.