21 Novembre 2024

Diritti ambientali e delle donne, due facce della stessa medaglia

[Traduzione a cura di Manuela Beccati e Davide Galati, dall’articolo originale di Majandra Rodriguez Acha pubblicato su openDemocracy]

Viviamo in un mondo in cui il cambiamento climatico sta avvenendo ad un ritmo molto più veloce del previsto. Non più una minaccia in un lontano futuro, il suo impatto sta già causando devastazione nei confronti di persone ed ecosistemi in tutto il mondo, la conseguente  morte di 400.000 persone all’anno, e un futuro cambiato in maniera imprevedibile per tutti noi.

Viviamo anche in un mondo dove una donna su tre sperimenta violenze fisiche o sessuali, molte volte dal proprio partner; dove 70% delle vittime di traffici sono donne o ragazzi; dove due terzi delle persone meno alfabetizzate sono donne; e dove, nonostante le donne siano circa il 50% della popolazione mondiale, solo circa un parlamentare su cinque è donna.

In un mondo fatto in questo modo, cosa riteniamo più importante? I livelli pericolosamente alti di gas serra nell’atmosfera, o il superamento delle disuguaglianze sociali sistemiche? Il diritto delle generazioni future a un pianeta sicuro, o i diritti delle donne a vivere libere dalla violenza e dall’oppressione? Entrambi – o magari nessuno dei due?

Come sosteneva Audre Lorde, non viviamo vite monotematiche.

Le questioni proposte sono ciò che alcuni -molti- di noi chiamano una falsa dicotomia. Misurare le tematiche ambientali nei confronti delle rivendicazioni sociali crea un binario in cui una questione viene affrontata, mentre l’altra ignorata – in cui crediamo di dover scegliere tra l’una e l’altra.

Ma perché stiamo raggiungendo i limiti del nostro pianeta, innanzitutto? Dove avviene più spesso il degrado ambientale, e su chi impatta maggiormente? Chi è responsabile di questi effetti negativi? E quali sono le “soluzioni” più efficaci e durature a queste crisi?

Ho trovato le risposte più chiare a queste domande nelle storie e nelle esperienze vissute di coloro che già vivono la crisi climatica e ambientale – coloro che conoscono bene, perché devono cercare di sopravvivere, i combustibili fossili e le industrie estrattive che generano la gran parte delle emissioni di carbonio e l’attuale degrado ambientale.

Nel contesto delle disuguaglianze globali che emergono dalle attuali politiche macroeconomiche neoliberiste, non è un caso che molti di coloro che si oppongono a queste industrie e denunciano il potere delle imprese, difendendo i loro mezzi di sussistenza, i diritti delle comunità e delle famiglie, la cura per sé stessi e per gli altri a fronte degli impatti sull’alimentazione, la salute la società, e sperimentando la vulnerabilità sproporzionata e la violenza in questi contesti, sono donne.

La forma del cambiamento climatico e del degrado ambientale.

Melina Laboucan-Massimo vive a Little Buffalo nella regione Peace River del Canada settentrionale. Lei è un’indigena Lubicon Cree, e le sue terre stanno in mezzo alle sabbie bituminose dell’Alberta. Come ha recentemente esposto al World Social Forum, l’Alberta è un luogo dove l’industria fossile sta trasformando acque immaccolate in laghi di rifiuti tossici talmente vasti che possono essere visti dallo spazio; sta abbattendo la foresta boreale a ritmi che superano quelli della deforestazione in Amazzonia; disperde migliaia di barili di petrolio senza riuscire a porvi adeguati rimedi; e  genera innumerevoli casi di cancro, forzando le persone a respirare  acido solfidrico o altri elementi tossici. Come ha raccontato, la situazione nelle sue terre d’origine è l’espressione di una mentalità che concepisce “zone sacrificabili“. Ed è in questo stesso contesto di estrattivismo rapace che si contano oltre 1.200 donne indigene scomparse o assassinate, e oltre 4.000 casi ancora non adeguatamente documentati.

Sabbie bituminose a Ft. McMurray, Alberta, Canada. Foto di Kris Krüg su Flickr in licenza CC.
Sabbie bituminose a Ft. McMurray, Alberta, Canada. Foto di Kris Krüg, Flickr/CC.

In una “zona sacrificabile”, un particolare popolo e il luogo sono spendibibili “per il bene” della vita e del profitto altrui. Cioè, la vita di alcuni vale più della vita di altri. In questo contesto, è una coincidenza che le donne indigene stanno scomparendo come le terre indigene vengono decimate?

Possono le diseguaglianze razziali, etniche e di genere essere separate da ciò che guida la devastazione ambientale nelle sabbie bituminose dell’Alberta? O, per metterla in modo diverso – potrebbe esistere l’uno senza l’altro?

Possiamo affrontare la crisi ambientale senza comprendere il tema della violenza?

In Perù abbiamo il terzo più alto tasso di femminicidio del Sud America, il secondo di violenze sessuali riportate, e uno scioccante dato di sette donne su dieci che sono state vittima di violenza sessuale, fisica, verbale o psicologica. Attualmente stiamo vivendo un potente momento storico di cambiamento sociale, dato che dopo due casi importanti di donne che sono state quasi uccisi dai loro partner, ai quali sono stata comminate sentenze lievi e poi sospese, quasi mezzo milione di persone sono scese in piazza il 13 agosto nella capitale Lima, e altre migliaia in tutto il Paese, per gridare “Ni una Menos!” (Non una di meno!).

All’interno di questa dura battaglia contro la violenza radicata e il sessismo, anche un’altra forma di violenza caratterizza il nostro contesto: siamo il quarto Paese più pericoloso per gli attivisti ambientali.

Chi si impegna lottando per difendere i nostri boschi, i corsi d’acqua e i nostri territori deve affrontare la repressione, le minacce e anche la morte per mano di chi viene ingaggiato dalle industrie dell’estrazione. E le donne attiviste ambientali, all’intersezione di queste forme di violenza, devono affrontare particolari forme di repressione.

Donne chiedono giustizia per Berta Cáceres, leader indigena assassinata nella propria casa per il suo impegno contro il progetto di una diga in Honduras. Foto dell'utente Flickr CIDH in licenza CC.
Donne chiedono giustizia per Berta Cáceres, leader indigena assassinata nella propria casa per il suo impegno contro il progetto di una diga in Honduras. Foto di CIDH, Flickr/CC.

In Perù e nel più ampio contesto latinoamericano, ciò comprende la violenza da parte delle proprie comunità e famiglie, come rappresaglia per aver fatto un passo al di fuori dei ruoli loro attribuiti. Come Patricia Ardon di JASS Meso America ha condiviso in un forum online promosso da AWID e WEDO lo scorso aprile, la violenza può anche prendere la forma del discredito e della diffusione di voci sulle donne impegnate nella difesa dell’ambiente che, secondo i media tradizionali “dovrebbero restare a casa”.

Possiamo affrontare i problemi ambientali senza affrontare al contempo la violenza contro chi si impegna per la sua protezione – compresa la violenza contro le donne?

Possiamo scollegare le battaglie delle donne per la propria sicurezza e per la libertà dalle battaglie per la nostra acqua, le nostre terre e le nostre foreste?

Il cambiamento inizia dalla propria casa

Alcune storie raccontate nel forum online di AWID fanno emergere quale sia tradizionalmente la suddivisione di genere del lavoro, secondo cui le donne hanno il compito di cura delle persone e del lavoro domestico. Ma i cambiamenti del clima e l’inquinamento sarebbero ostacoli decisivi per lo svolgimento sicuro di queste attività. In particolare nelle aree rurali, quando a seguito di una catastrofe naturale le risorse come l’acqua e il foraggio scarseggiano o non sono disponibili, e la salute della famiglia ne è influenzata. Il risultato è che entrambi provocano l’aumento del carico di lavoro alle donne.

È possibile un adattamento efficace ai cambiamenti climatici senza considerare il lavoro che le donne eseguono per la cura delle loro comunità, e le loro competenze?

I lunghi viaggi che le donne compiono per raccogliere l’acqua e il foraggio possono anche significare un aumento dei rischi per la loro sicurezza, oltre ai rischi derivanti da calamità naturali stesse. Ne ha parlato Adi Vasulevu di FemLINKPACIFIC a proposito di ciò che è accaduto nelle isole Fiji, dove di recente il ciclone tropicale Winston ha causato 44 morti, di cui la maggior parte erano donne. Sono emersi casi di stupro avvenuti nei centri di evacuazione. In questi casi i traumi e le sofferenze sono gravi.

È possibile dare un’immagine completa degli impatti del clima senza menzionare l’aumento della violenza sessuale e i rischi che le donne si trovano ad affrontare?

Nelle aree urbane, le donne devono affrontare anche criticità particolari. Araceli di Domésticas Unidas ha illustrato in occasione del Forum Sociale Mondiale come le donne impiegate nelle faccende domestiche siano esposte ai vapori nocivi dei prodotti di pulizia, per lo più a base di benzina e gas tossici. Ha visto la maggior parte delle sue compagne di lavoro ammalarsi, e un numero sproporzionato di loro morire di cancro. Da sola, però, ha avuto l’iniziativa di creare da sé i detergenti che utilizza in modo da renderli sicuri e sostenibili, e condivide liberamente le ricette con altre donne.

Possono clima e “soluzioni” ambientali essere sufficienti alle esigenze di ognuno di noi, senza tener conto delle particolari esperienze e conoscenze delle donne?

Come stanno le cose realmente: clima e disuguaglianza sono due facce della stessa medaglia.

Queste sono solo alcune tra le innumerevoli storie che parlano degli effetti che il cambiamento climatico e il degrado ambientale hanno sul territorio. Ci mostrano gli impatti climatici e ambientali così come sono, al di là dei limiti imposti alle emissioni di anidride carbonica o altri metalli nocivi. Sono la testimonianza di quanto incidono sia l’industria dei combustibili fossili che la natura rapace del sistema industriale attuale.

Sul clima vanno a pesare elementi economici, sociali, culturali e politici, che sfociano in disuguaglianze sociali e dei ruoli di genere, passando per le politiche di globalizzazione economica e la prevalenza del potere aziendale tramite la normativa ambientale.

Forse ancora più importante, ci mostrano anche come le persone si stanno impegnando a rispondere alla crisi, offrendo nuove visioni dei diritti umani e l’adozione di proposte di valore che cercano di ottenere ampie trasformazioni politiche, sociali, economiche e culturali per tutti noi. Dare credito al falso concetto che l’uno esclude l’altro in riferimento al clima e alla disuguaglianza sociale, significa rafforzare le condizioni sociali che marginalizzano queste voci e prospettive, negandoci di comprendere la loro intuizioni profonde, le risposte e la potente capacità di ispirare e trasformare.

Naomi Klein afferma che «sostenendo che “il clima è più importante”, perdiamo.» Chiedere alla gente di scegliere tra povertà e inquinamento non fa altro che indebolire e dividere i nostri movimenti.

Ma non solo, si ignorano le vite reali vissute da milioni di individui in tutto il mondo, per i quali l’ambiente non può essere separato dalla disuguaglianza, affinché la loro storia non sia raccontata incompleta.

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Corteo sfila per le strade di New York a favore dei diritti delle donne di tutto il mondo: “Il pianeta 50-50 entro il 2030: verso l’uguaglianza di genere e i diritti delle donne”, Giornata internazionale della donna, 8 marzo 2015. Foto di UN Women/J Carrier CC

Le donne in generale, le femministe, gli attivisti per la giustizia sociale e per la legalità ambientale in tutto il mondo, stanno creando collegamenti e si impegnano in un lavoro che copre le intersezioni tra lotte ambientali e sociali. Dalla celebrazione dell’energia rinnovabile locale ad Alberta, alle femministe in Bolivia, passando per le lotte per la libertà del corpo femminile, la liberazione dei nostri territori dalle industrie estrattive, ai sindacati che sostengono una giusta risoluzione della crisi climatica, ci sono innumerevoli esempi di dialogo tra movimenti, solidarietà e azione da cui attingere.

Davide Galati

Nato professionalmente nell'ambito finanziario e dedicatosi in passato all'economia internazionale, coltiva oggi la sua apertura al mondo attraverso i media digitali. Continua a credere nell'Economia della conoscenza come via di uscita dalla crisi. Co-fondatore ed editor della testata nonché presidente dell’omonima A.P.S.

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