Voci Globali

Afghanistan, una guerra rimossa che cova sotto la cenere

[Traduzione a cura di Benedetta Monti, dall’articolo originale di Paul Rogers pubblicato su openDemocracy]

Foto Flickr dell’utente AereiMilitari.org B-52. Licenza CC

L’Afghanistan non è più sotto i riflettori dei media occidentali, anche se il conflitto continua con violenza e senza tregua. Uniche eccezioni sono stati alcuni eventi quali l’attacco e l’assedio durato dieci ore all’Università americana di Kabul il 24 agosto scorso, in cui sono state uccise quattordici persone e ferite molte altre. Questo evento ha attirato l’attenzione dei media in quanto indicatore del fatto che l’attività dei talebani continua, com’è successo anche con l’attentato avvenuto durante la marcia di protesta della minoranza Hazara il 23 luglio nella capitale, nel quale sono state uccise ottanta persone e 250 sono rimaste ferite.

Eppure, altri sviluppi del conflitto, a malapena segnalati o addirittura ignorati dai media occidentali, hanno un significato ancora maggiore: ad esempio, in un recente articolo riportato in fondo a una delle pagine interne di un importante pubblicazione militare si leggeva del “ritorno dei cacciabombardieri B-52 nella campagna americana in Afghanistan”.

La situazione ricorda quanto accadde dopo l’11 settembre, quando il cacciabombardiere B-52H Stratofortress a lungo raggio fu ampiamente utilizzato nelle operazioni militari per porre fine al regime talebano e sconfiggere al-Qaida. Il velivolo ebbe un ruolo marginale nei tre anni successivi, restando assente dalla scena del conflitto per un decennio, quando altri cacciabombardieri, come il B-1B, presero il suo posto. Adesso però il B-52, con il suo carico di munizioni, è di nuovo al centro della campagna aerea degli Stati Uniti. Dal mese di aprile, impiegati dalla base aerea di Al Udeid in Qatar, i B-52 hanno condotto più di 325 attacchi in quasi 270 missioni.

Il contesto storico di questi bombardamenti intensi è significativo. Durante la campagna per la presidenza americana nel 2008, il logorio della guerra in Iraq era tale per cui Barack Obama riuscì a sostenere un ritiro delle truppe americane da quella nazione. Ma il suo team aveva una visione diversa dell’Afghanistan: un ritorno dei talebani e la presenza persistente di al-Qaida continuavano a mantenere vivo il collegamento con l’11 settembre. La guerra in Iraq poteva essere “sbagliata”, ma quella in Afghanistan era ancora “giusta”.

Ad Obama occorse più di un anno di discussioni per arrivare a una decisione chiave: aumentare il numero delle truppe americane in Afghanistan di 30.000 unità, portando quindi il totale a circa 100.000. Si credeva che questo “incremento” – associato a oltre 30.000 truppe degli altri membri della coalizione – avrebbe spinto i talebani a negoziare e ad accettare un accordo per ottenere un ruolo politico comunque modesto nel futuro della nazione.

Questa strategia purtroppo non ha funzionato. Nel 2012, quando Obama cercava di essere rieletto, gli obiettivi della sua amministrazione si sono ristretti: un ritiro graduale delle truppe entro la fine del 2015, lasciando alcune unità di addestramento e una protezione adeguata per i diplomatici e altro personale americano. Si sperava che un nuovo governo tecnocratico a Kabul, con Ashraf Ghani come presidente al posto di Hamid Karzai, avrebbe potuto consolidare la propria posizione con il supporto dell’esercito nazionale afghano addestrato dagli Stati Uniti.

Quando i talebani hanno esteso il proprio controllo in un numero crescente di distretti, è divenuta chiara la natura inverosimile di questa tattica (anche se questo non ha fermato il primo ministro inglese David Cameron dal pronunciare la frase: “missione compiuta” un anno prima del ritiro del contingente inglese). Nel 2015 l’amministrazione Obama ha regolato la propria posizione concordando di lasciare circa 10.000 soldati in Afghanistan, sperando di dimezzare il numero delle truppe entro la fine del mandato di Obama nel 2017, ma gli eventi in corso hanno reso questo progetto irrealistico.

La centralità di Helmand

Nella primavera del 2016, l’offensiva talebana ha visto organizzare attacchi militari in molte province diverse negli ultimi quattro mesi, portandola al di là delle sue roccaforti storiche – le province meridionali di Helmand e Kandahar. L’avanzata dei talebani ha messo in luce i problemi dell’esercito nazionale afghano, che è stato spesso risparmiato dalla sconfitta solamente grazie alle forze aeree occidentali.

L’esercito afghano ha anche problemi di equipaggiamento, resi peggiori dalla scarsità di scorte per la parte di equipaggiamento prodotto in Russia, che le sanzioni degli Stati Uniti contro la Russia rendono difficili da reperire. Gli Stati Uniti si sono rivolti all’India, nazione che un tempo importava attrezzature militari russe, per cercare di colmare le carenze, azione forse sensata per il Pentagono, ma che a sua volta aumenta i sospetti in Pakistan che le relazioni più strette tra India e Afghanistan costituirebbero una minaccia per la posizione di Islamabad nella nazione.

Nell’immediato, Washington e Kabul sono allarmati dall’espansione dei talebani in gran parte del Paese, in particolare a Helmand. La città cruciale di Lashkar Gah si trova in pericolo, e il Pentagono ha annunciato lo schieramento di un ulteriore centinaio di soldati americani per aiutare le forze dell’esercito afghano messe sotto assedio.

Le implicazioni di una sconfitta costituirebbero un problema serio per due motivi. Il primo è che Helmand in generale, e Lashkar Gah in particolare, costituivano delle priorità dal punto di vista strategico negli anni successivi al ritorno dei talebani nel 2005-06: dovevano semplicemente essere protette. Il ritorno del controllo in mano ai talebani, oltre a un significato simbolico, darebbe al movimento un incentivo per evitare le trattative con il governo di Kabul.

Il secondo motivo è che la provincia stessa è la singole fonte più importante per la coltivazione di oppio a livello mondiale. Helmand rappresenta il 90% della produzione totale afghana. Se i talebani estendessero la loro influenza su questa provincia, nonostante il supporto aereo e via terra degli americani, nasceranno nuovi problemi su cui Washington dovrà riflettere.

Il probabile esito è un’ulteriore crescita del coinvolgimento americano, insieme a una nuova pressione sugli alleati, come la Gran Bretagna. Un’escalation della guerra è praticamente certa se Hillary Clinton riuscirà ad arrivare alla Casa Bianca, e anche per Donald Trump sarà difficile ritirare le forze americane, rischiando di essere associato a un’umiliazione militare nel primo mese del suo mandato. In entrambe i casi, i programmi dei notiziari nei prossimi mesi dovranno trovare spazio per l’Afghanistan.

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