21 Novembre 2024

Africa day: il giorno dell’orgoglio, il giorno dello sdegno

Il 25 maggio è giorno di festa per l’Africa. Si ricorda la nascita dell’Unione Africana, 25 maggio 1963. Data in cui i primi Paesi ad essersi affrancati dal giogo coloniale facevano voto di unità, sviluppo, progresso. Di un nuovo futuro, libero e indipendente. Voto che sarà rinnovato anche quest’anno nelle celebrazioni che avranno luogo ad Addis Abeba, la stessa città che ospitò il primo incontro. Allora i Paesi erano 32, oggi si tratta di 54 Stati. Giorno di orgoglio, dunque.

Ma è proprio oggi che bisogna fare i conti con la realtà. Una realtà oscena. La rappresentiamo con alcuni dati e immagini concentrandoci sull’Africa Sub-Sahariana. Nei 47 Paesi che la compongono vivono 831 milioni di persone. Di queste, circa 621 mln non hanno accesso alla corrente elettrica. Due abitanti su tre. Il 64% della popolazione dell’Africa Sub-Sahariana vive in aree rurali, che nella stragrande maggioranza dei casi mancano delle infrastrutture di base. Strade, corrente elettrica – appunto – acqua potabile.

Acqua: Secondo un recente report dal dopoguerra a oggi 111 conflitti nel mondo sono da imputarsi a cause ambientali. Di questi, 79 sono ancora in corso. Ma le Nazioni Unite stimano 300 potenziali conflitti per l’acqua esistenti in tutto il mondo, le cosiddette “guerre dell’acqua”. Molte di queste sono in Africa. La mappa in basso mostra però un elemento che non viene preso spesso in considerazione: l’Africa Sub-Sahariana non vive il problema dell’approvvigionamento per carenza di acqua, ma per mancanza di infrastrutture in grado di depurare e portare l’acqua nelle case, oppure nelle aree coltivate. Avvicinarsi a fiumi, laghi, ruscelli diventa quindi indispensabile – a chi vive nelle zone rurali – per supplire a politiche di sviluppo troppo carenti su questo fronte.

 

Immagine tratta dal sito http://www.globalization101.org/environmental-refugees/

Cosa vuol dire non avere accesso alla corrente elettrica e all’acqua? E cosa vuol dire quando si vive con meno di 1.25 dollari al giorno? Vale a dire la condizione di circa 400 milioni di persone dell’Africa Sub-Sahariana. Vuol dire rinforzare la trappola della povertà. Che genera arretratezza, alienazione e morte.

Facciamo degli esempi: il 60% dei frigo usati per tenere i vaccini non hanno accesso a un’affidabile fonte di corrente elettrica. I vaccini si perdono, i costi aumentano, i bambini muoiono… Nei Paesi africani, soprattutto nelle aree rurali per cucinare e riscaldarsi si fa uso massiccio di carbone, unica fonte disponibile. 600.000 africani muoiono ogni anno a causa dell’inquinamento e dei fumi respirati nelle capanne senza aerazione. La metà sono bambini al di sotto dei 5 anni.

Altro esempio? È stato calcolato che una donna che vive in un villaggio della Nigeria del Nord spende da 60 a 80 volte di più per i suoi consumi energetici che una residente a New York o a Londra. Paga di più nella bolletta elettrica – se nel suo villaggio esiste l’allacciamento ai pali della corrente – a causa dell’eccessivo costo del servizio. Oppure è costretta ad acquistare continuamente carbone, cherosene, candele. O a spendere ore per raccogliere la legna nel bush. Senza contare i danni ambientali dell’incessante disboscamento.

Secondo stime e dati accertati, si calcola che se si continua così queste popolazioni non avranno accesso a forme non inquinanti e più sicure di energia che nel 2080. E in cosa si traducono le ore che le donne e i bambini spendono per andare a prendere e portare l’acqua a casa? Assenza dalla scuola, mancanza di tempo per il miglioramento personale, per cercare e vivere altre opportunità.

 

Immagine tratta dal Report dell'Africa Progress Panel. A questo indirizzo http://www.africaprogresspanel.org/wp-content/uploads/2015/06/APP_REPORT_2015_FINAL_low1.pdf

E a proposito di consumi ed elettricità, dove vanno a finire i nostri frigo, i laptop che non ci piacciono più, le lavatrici rotte o gli smartphone che non sono più di moda? 40.000 tonnellate arrivano ad Accra ogni anno, ad Agbogbloshie, meglio nota come Sodoma e Gomorra. Nel 2014 nello studio di Green Cross e Blacksmith Institute che ha presentato l’elenco dei “dieci luoghi maledetti”, i luoghi più inquinati della terra, Sodoma e Gomorra era al primo posto.

In un recente Report dell’UNEP (Programma ambientale delle Nazioni Unite) si legge che dal 60 al 90% dei rifiuti elettronici è gettato in discariche illegali. Cosa produce questo materiale di scarto? Piombo, mercurio, diossina, cadmio. Vale a dire inquinamento, degrado sociale e ambientale, tumori. Ormai è chiaro a tutti il filo rosso che lega mancanza di risorse e mezzi di sostentamento, sfruttamento dei territori e catastrofi ambientali, al proliferare dei conflitti e del terrorismo. Senza considerare l’indifferente violenza con cui si sfrutta il territorio – e lo si lascia fare da multinazionali estere – senza alcun riguardo per le popolazioni locali.

Secondo lo scienziato Norman Mayer, entro il 2050 si raggiungeranno i 200/250 milioni di rifugiati ambientali e secondo l’UNEP nel 2060 in Africa ci saranno circa 50 milioni di profughi climatici. Che si andranno ad aggiungere a chi già scappa dalla fame e dai conflitti. Con la differenza che per i rifugiati ambientali non esistono tutele, non esiste nessuna Convenzione di Ginevra, nessuna norma o meccanismo di protezione.

Sarebbero 38,2 milioni gli sfollati interni in tutto il mondo. Di questi quasi la metà, 46%, sono nel continente africano, vale a dire 11,6 milioni. Parliamo di cifre che si fermano al 2014. E non sono confortanti le analisi del World Watch Institute secondo cui

Gli impatti diffusi dei cambiamenti climatici potrebbero portare a ondate migratorie, minacciando la stabilità internazionale. Si stima che entro il 2050, 150 milioni di persone potrebbero essere fuggite da aree vulnerabili per l’innalzamento del livello del mare, tempeste o inondazioni, o terreni agricoli troppo aridi per coltivare.

Tutto è connesso, ovviamente. E tutto contribuisce a incrementare i danni al territorio e alla popolazione: il riscaldamento atmosferico come lo smisurato sfruttamento delle risorse e della terra – pensiamo solo al land grabbing; i conflitti politici e la carestia.

In Kenya esiste il più grande campo di rifugiati interni del continente: Dadaab. Originariamente allestito – nel 1992 – come campo di transito per dare rifugio a migliaia di somali che scappavano dalla guerra nel loro Paese, è poi diventanto casa per 350.000 persone. Rifugiati somali, ma non solo. Inutile soffermarsi sui tanti problemi generati dalla presenza di questo campo nel corso degli anni. Uno fra tutti: Dadaab è diventato luogo privilegiato di reclutamento per il gruppo terroristico Al-Shabaab. Una delle ragioni per cui il Governo kenyota vuole da tempo chiuderlo. La gente che ormai ci vive da decenni dovrebbe tornare in Somalia. A far cosa?

E che fine hanno fatto 45.000 rifugiati ivoriani che durante le violenze post elettorali del 2011 in Costa D’Avorio avevano trovato rifiugio in Paesi confinanti? Se ne sono perse le tracce… Quest’anno si celebrano le donne africane, in quest’Africa day. Quali donne? Quelle per le quali vivere è una costante fatica e austerità?

Certo c’è un’Africa anche diversa: energica, piena di iniziative e di ottimi risultati. Anche avanti all’Europa ormai. Di questa Africa parliamo spesso sulla nostra testata. Oggi però, proprio nel giorno di festa, vogliamo ricordare ciò che rende lontana l’Africa di oggi dal sogno di unità e sviluppo di Nkwame Nkrumah.

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Nelson Mandela una volta disse “It always seems impossible until it’s done” – sembra sempre impossibile, finchè non si è fatto. Possiamo crederci.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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