Fred Kuwornu, così racconto le diversità e le storie dimenticate
Pluralità, diversità, multiculturalità. Tutti concetti spesso alieni ai grandi media. A cominciare dal cinema, che sembra egli stesso vivere in un mondo alieno, scollegato dalla realtà.
È questo il motivo che ha spinto numerosi artisti a vestire i panni dell’attivismo per evidenziare l’incongruenza dell’industria dei media e combatterne pregiudizi, anacronismi ma anche lo “sfruttamento” di figure e personaggi usati a fini di perpetuare immaginari collettivi e luoghi comuni.
Nota è la campagna – anche sui social – di attori, produttori, fan, all’indomani delle nomination per gli Oscar, che – ancora una volta – non hanno visto né neri, né latino-americani comparire nell’elenco. #oscarsowhite è stata solo la punta di un iceberg che sta continuando a crescere, Pochi giorni fa l’attore britannico di origini sierra leonesi, Idris Elba – in rappresentanza di un gruppo di circa 50 attori e artisti britannici – in un discorso al Parlamento inglese ha sottolineato il gap tra il mondo della tv e quello reale, tra la quantità e diversità di talenti e le opportunità offerte a questi talenti per esprimersi.
Tra l’Italia, l’Africa e gli USA si muove invece Fred Kudjo Kuwornu, filmaker-produttore indipendente nato e cresciuto in Italia, di origine ghanese, che vive tra l’Italia, appunto, e New York.
Lo abbiamo sentito durante una pausa di lectures e proiezioni di “Blaxploitalian 100 Years of Blackness in The Italian Cinema” (Blaxploitalian 100 anni di afrostorie nel cinema italiano). Un documentario – realizzato anche grazie a una campagna di crowdfunding – che tratta di una storia praticamente sconosciuta e silente fino ad ora, vale a dire il contributo che attori afroitaliani, afroamericani e africani hanno dato al cinema italiano. Ma non si tratta semplicemente di una carrellata di volti e titoli. L’obiettivo è molto più ampio e rappresenta il contributo di questo artista per sostenere un cambiamento di rotta nel modo in cui l’industria dei media rappresenta le varie pluralità, non solo etniche.
Nel cinema, ma anche nella tv e negli altri media c’è una costante mancanza di rappresentazione delle diversità. Diversità non solo di colore della pelle ed etniche, ma anche di genere per esempio, o religione, per non parlare della mancanza di rappresentatività delle persone disabili. Per tornare alla “composizione della società”, qui in USA i latino-americani rappresentano il 12 per cento della cittadinanza ma nei film sono rappresentati solo al 4 per cento e spesso per ricoprire il ruolo di immigrati. Lo stesso accade con le persone di colore a cui spesso spesso vengono affidate parti che hanno a che fare con la marginalità: spacciatori, delinquenti, immigrati, rifugiati… Oggi Hollywood sta in reatà rappresentando una società che è la minoranza, una società che sta invecchiando, tralascinado invece la realtà e la maggioranza del Paese.
Perché avviene questo e qual è la situazione in Italia?
Sostanzialmente chi non è vissuto in una ambiente di diversity non ne ha acquisito la mentalità e sostiene creativi e artisti della classe dirigente. E tutto questo, negli USA, Inghilterra, Giappone, un po’ ovunque si ripercuote sul casting. In Italia poi si fanno i conti con il familismo dell’industria cinematografica, non c’è meritocrazia e i prodotti sono approssimativi. Prodotti finanziati dai Beni Culturali non deviano dalla norma e quelli della tv sono finanziti dalla Rai. Si tratta di soldi pubblici, quindi anche tasse che pagano gli immigrati e i figli di immigrati. Possiamo dire che il 10 per cento dell’industria cinematografica è finanziata da immigrati.
Eppure la società, le società, sono cambiate, ma i vecchi modelli fanno fatica ad essere sostituiti con le esperienze che ci circondano.
Io ho la fortuna di vivere sulla mia pelle la multiappartenenza, una esperienza che oggi è all’ordine del giorno, di storie simili alle mie ce ne sono molte, viviamo ormai in una società liquida in cui le etichette valgono poco. Ma rispetto all’Italia al momento sono poco ottimista, non si può costruire una società multietnica senza competenze, conoscenza e senso della responsabilità. Se si insegnasse nelle scuole – per esempio – che dall’Impero Romano all’Unità d’Italia il Paese era già un’esperienza multietnica allora si capirebbero molte altre cose, non si parlerebbe in termini di diversità come “diverso”, ma ci si sentirebbe fieri di crescere in uno Stato frutto di multietnicità.
Ma torniamo a “Blaxploitalian 100 Years of Blackness in The Italian Cinema”. Si tratta di un racconto temporale di oltre cent’anni che, partendo dal cinema muto e coloniale, arriva fino al cinema contemporaneo, raccontando il contributo di attori afroamericani come Harold Bradley (ricordate Maciste?), John Kitzmiller (che ha lavorato con Lattuada e Fellini), Fred Williamson (scritturato da Enzo Castellari) e quello di attori e attrici afrodiscendenti. Italiani di nascita o d’adozione come Zeudi Araya, Ines Pellegrini, Iris Peynado, Fiona May. E ancora: Denny Mendez, Letizia Sedrick, Bobby Rhodes, Salvatore Marino, Jonis Bascir, Livio Beshir, Germano Gentile. Sono centinaia gli interpreti che hanno recitato nei film del Neorealismo, in quelli storico-mitologici, nella commedia anni ’60, nel poliziesco anni ’70 o che hanno inciso la memoria collettiva degli italiani con i loro passaggi televisivi come Lola Falana, Rocky Roberts, tanto per citarne alcuni.
Il termine Blaxploitation, fusione di black e (nero) ed exploitation (sfruttamento) è stato un genere di film sviluppato in America a partire dagli anni Settanta ma molto criticato da chi vi vedeva – appunto – l’ampificazione di stereotipi sui neri e gli afroamericani. Fred Kuwornu ne coglie invece l’aspetto positivo, quello di aver generato un’industria e un potere produttivo e di espressione a molti talenti afro-americani. L’obiettivo del documentario, che sta portando in giro soprattutto negli States e in Italia, è soprattutto quello “di stuzzicare – dice – i decision maker che in futuro, anzi già oggi, devono fare i conti con la multidentità e creare condizioni e opere che la rappresentino“.
L’impegno dell’artista/attivista italo-ghanese negli anni scorsi ha dato vita ad altri significativi lavori. “Inside Buffalo” nel 2010 e “18 Ius Soli” nel 2012.
Il primo è l’avvincente storia della 92^ Divisione “Buffalo Soldiers“, i soldati afroamericani che combatterono durante la Seconda guerra mondiale nella Campagna italiana in Toscana e sulla linea Gotica. Interviste, narrazioni e filmati d’epoca per raccontare non solo le loro vicende belliche ma soprattutto il ruolo che questi soldati ebbero poi nella lotta per i diritti civili in USA.
Il documentario – nato dall’incontro con Spike Lee con cui ha lavorato nel film Miracolo a Sant’ Anna dove si racconta l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema – rende merito all’onore di questi uomini, spesso ricordati dall’iconografia come quelli “che distribuivano chewing gum e cioccolata ai bambini”.”Durante il secondo conflitto mondiale, in Italia sono passati 3 milioni di soldati, circa 700mila erano stanziali: di questi oltre il 30 per cento era costituito da stranieri, non solo africani. Sono stati carne da macello ma questa storia non è stata raccontata”.
In “18 Ius Soli” Kuwornu ha affrontato il tema del “diritto di essere italiani” per tutti coloro che – a prescindere dalla nazionalità dei genitori e dal colore della pelle – in Italia ci sono nati. Ma in termini più ampi ha affrontato i temi del pregiudizio, dell’identità e dell’incapacità di certa parte della società italiana di confrontarsi e capire il cambiamento ormai in corso da decenni. Per chi non l’abbia ancora visto proponiamo qui il documentario completo.
Ora però Kuwornu – tra un incontro e l’altro in Associazioni, centri culturali e Università – è in fase di progettazione. Per cominciare un documentario sul padre, ghanese, arrivato in Italia negli anni Sessanta dove è rimasto a fare il medico chirurgo, con poche occasioni di tornare nel suo Paese. “Una storia emblematica la sua – dice l’artista – comune a molte altre di africani che, una volta arrivati in Europa o in America, non sono più tornati nei loro Paesi“.
Poi, un documentario su James Senese, il sassofonista nero – che ha suonato per anni con Pino Daniele – nato da una relazione tra una giovane napoletana e un soldato afromericano di stanza a Napoli. E, infine, una trilogia: Afroitalics, Afropeans, Afropolitans. Di questi però preferiamo, per il momento, non svelare nulla…