27 Aprile 2024

La sofferenza inosservata degli sfollati interni

[Traduzione a cura di Benedetta Monti, dall’articolo originale di Jeremy Fox pubblicato su openDemocracy]


Disastro naturale, foto di Fox News Insider su Flickr, licenza CC.
Disastro naturale, foto di Fox News Insider su Flickr, licenza CC.

Le notizie quotidiane sul gran numero di rifugiati che affluiscono in tutta Europa in cerca di soccorso e protezione, e sui milioni che si trovano alle porte dell’Unione in nazioni come la Turchia, la Giordania e il Libano, non hanno bisogno di ulteriore copertura. Si ritiene che solamente la situazione in Siria comporti un numero di quattro milioni di rifugiati, con quelle dell’Iraq e della Somalia che ne aggiungono altri tre. Centinaia di migliaia di persone stanno arrivando da nazioni come l’Afghanistan, la Libia, l’Eritrea, la Nigeria, e così via. Si tratta di cifre allarmanti che però non destano alcuna sorpresa in quanto i media le hanno rese comuni.

Resta invece meno documentato e meno noto – forse perché le sue ripercussioni non hanno raggiunto il mondo occidentale – il problema delle persone che hanno abbandonato o perso la propria casa, fenomeno di dimensione ancora più ampia. Secondo le stime dell’UNHCR (l’Alta Commissione delle Nazioni Unite per i Rifugiati), il numero attuale di persone sfollate è di 59,5 milioni, di cui “solamente” 19,3 milioni sono classificate come rifugiati o richiedenti asilo politico [i]. Nel linguaggio ufficiale gli sfollati interni, che non coincidono con i rifugiati, sono noti come IDP [Internally Displaced People, persone sfollate all’interno del proprio Paese].

Rifugiati e sfollati interni

Un rifugiato è una persona che ha lasciato la propria patria perché teme di essere oggetto di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un certo gruppo sociale oppure a un ideale politico, e non riesce a trovare protezione in quella nazione [ii]. Questa definizione è stata coniata nel periodo successivo alla II Guerra Mondiale e adottata formalmente durante la Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, che rifletteva sulla guerra appena conclusa e limitava il termine a quell’esperienza. Alle persone che hanno partecipato alla stesura della Convenzione di Ginevra non è forse venuto in mente che il termine di rifugiato può essere applicato anche a quelle persone che sono state costrette ad abbandonare la propria casa senza avere le risorse per fuggire, oppure non esistono nazioni che le accettano, o non ne conoscono l’esistenza. Se in Darfur fuggi per salvarti la vita, non è importante quanta strada tu abbia percorso, né il motivo della tua fuga, diventi un rifugiato solamente nel momento in cui oltrepassi un confine internazionale, fino ad allora sei solamente uno sfollato interno.

Quasi l’80% dei 13,9 milioni di persone sfollate nel 2014 a causa di conflitti o di persecuzioni erano, e sono tutt’ora, sfollati interni. I rifugiati destano preoccupazioni, meritano la protezione della comunità internazionale – se non in pratica, almeno in teoria – mentre gli sfollati interni, o IDP, anche se sono riconosciuti e sostenuti dall’UNHCR, sono relegati in un angolo della coscienza mondiale. E come vedremo nei dettagli, anche l’approccio della stessa UNHCR soffre di serie limitazioni. I fattori più riconosciuti come causa dello sfollamento delle persone all’interno del proprio Paese sono la violenza, la persecuzione e le calamità naturali.

Sfollati a causa di violenze e persecuzioni

Non è un fatto sorprendente che la Siria subisca attualmente il numero più alto di sfollati interni a causa delle violenze in corso – con stime che variano da 6,5 milioni a 7,6 milioni di persone – con molte differenze riguardo al loro numero esatto che rispecchiano sia il ritmo dei continui deflussi di persone, sia la difficoltà di raccogliere dati con precisione nelle aree di conflitto. E gli utenti dei media occidentali non rimarranno stupiti dall’apprendere che il numero di sfollati interni in Iraq è aumentato a più di 3,5 milioni, oppure che 1,5 milioni di persone del Sud Sudan e un milione di afghani sono sfollati all’interno dei propri confini nazionali.

Ciò che potrebbe essere meno noto è il fatto che la regione con il secondo maggior numero di sfollati interni a causa di violenza non è il Medio Oriente o il Nord Africa, ma il Sud America. In Colombia ci sono circa 6 milioni di sfollati – vittime della violenza interna commessa dalla guerriglia, dalle forze governative ufficiali e non ufficiali e dalla milizia. Non ci sono molte notizie al riguardo, forse perché la Colombia non è mai stata considerata un campo di battaglia ideologico tra Occidente e Oriente, oppure tra religioni in competizione, ed è ritenuta una zona più interessante per i trafficanti di droga e per i commercianti di caffè piuttosto che per le compagnie petrolifere.

Sfollati a causa di calamità naturali

Secondo il Centro di monitoraggio delle persone sfollate di Ginevra, tra il 2008 e il 2015 il numero di persone sfollate a causa di calamità naturali è stato di 185 milioni. La cifra è esatta, non è un errore di battitura. Queste persone sono costrette a lasciare la propria abitazione a causa dei terremoti, delle frane, delle inondazioni, degli incendi e della siccità. Nel 2014, il numero di queste persone è stato di 19,3 milioni (sotto la media annuale) e le nazioni più colpite sono state le Filippine (5,8 milioni), la Cina e l’India (3,5 milioni ciascuna). Le calamità naturali tendono a comparire in prima pagina sui quotidiani del mondo, sebbene poi la maggior parte cada nel dimenticatoio. Quanti di noi sanno che solamente l’anno scorso sono stati sfollati quasi un milione di cinesi e indonesiani, 250.000 malesi, 200.000 boliviani, 150.000 brasiliani e persone dello Sri Lanka, 130.00 sudanesi e 80.000 paraguaiani?

Le calamità naturali sono semplicemente eventi casuali non correlati a ciò che gli esseri umani stanno facendo alla Terra? Non secondo l’opinione della Banca Mondiale, con il consenso dalla comunità scientifica. Inoltre il numero di eventi più gravi mostra una tendenza crescente – in particolare riguardo alla frequenza delle tempeste e delle inondazioni. Nonostante il grande impegno degli ambientalisti e di alcuni sostenitori famosi come Al Gore e Naomi Klein, se non vi è alcun motivo di pensare che tale tendenza si arresti, allora possiamo aspettarci un numero crescente di calamità naturali e quindi di persone disperate che rimarranno senza un’abitazione.

Sfollati a causa dello sviluppo economico

Largamente ignorati sia dai media che dalle agenzie internazionali come la UNHCR, i progetti per lo sviluppo sono la terza causa, e probabilmente la causa maggiore, dello sfollamento delle persone e della miseria sul pianeta. Il Dr. Michael Cernea, ex consulente della Banca Mondiale, ha fatto più di chiunque altro per diffondere l’allarme. Già nel 1995, durante il suo intervento in una conferenza all’Università di Oxford, Cernea affermava che:

“[…..] in tutto il mondo circa dieci milioni di persone ogni anno entrano nel ciclo dello sfollamento forzato e reinsediamento, in due “settori” – la costruzione di dighe e l’urbanizzazione/trasporti. [….] Gli sfollamenti causati dallo sviluppo […] si sono rivelati molto più ampi dei flussi annuali di rifugiati nel mondo.”

Questi 10 milioni, come ha sottolineato lo stesso Cernea, rappresentavano una cifra parziale, in quanto non si includevano gli sfollamenti dalle foreste e dai parchi naturali, dalle zone di miniere e di centrali termoelettriche e altre aree. Il suo elenco di danni più comuni dello sfollamento causato dallo sviluppo comprende la privazione della terra e delle abitazioni, la disoccupazione, l’emarginazione, l’insicurezza alimentare, l’aumento di morbilità e mortalità e la disgregazione sociale. E, come lui stesso precisa in un documento del Brookings Institute pubblicato nel 2014, questo processo procede inesorabilmente.

Le vittime dei grandi progetti per lo sviluppo vengono raramante risarcite o ricompensate in modo adeguato. Dato il degrado ambientale e la miseria delle popolazioni indotti dallo sfruttamento delle sabbie bituminose in Alberta, nel Canada, oppure all’attività di estrazione mineraria nel Cerrejòn, nel nord della Colombia, è difficile prevedere quale risarcimento potrebbe essere descritto come “restitutivo”. Nel libro “Everybody loves a good draught“, un resoconto sulla vita dei poveri in India, l’autore P. Sainath racconta di alcuni sfollati che hanno trascorso 45 giorni in attesa di un risarcimento. Perfino la Banca Mondiale manca di convinzione quando si tratta di salvaguardare gli interessi delle persone emarginate a causa dei progetti che essa stessa finanzia, senza considerare il suo impegno formale di farlo.

Tra i progetti per lo sviluppo che provocano danni maggiori – danni alle persone direttamente coinvolte – ci sono le grandi dighe. La scrittrice Arundhati Roy nel suo saggio “The Greater Common Good” scaturito dalla rabbia e dall’indignazione, fornisce un’immagine toccante del modo in cui le vite degli abitanti dei villaggi in India – soprattutto delle tribù – sono state distrutte dalla costruzione delle grandi dighe. Centinaia di abitanti hanno perso la vita a causa delle inondazioni, i terreni agricoli e le zone forestali preziose si trovano adesso sommersi dall’acqua, le strutture sociali si sono sgretolate e le persone si trovano in uno stato di povertà e miseria. Nel suo saggio, la Roy fa riferimento a uno studio relativo a 54 grandi dighe dell’Istituto per la Pubblica Amministrazione indiano, in cui si stima che la media di persone sfollate dalle grandi dighe si trova appena sotto le 45.000. La “Central Water Commission” indiana gestisce un registro nazionale sulle dighe, in cui è scritto che nella nazione attualmente ci sono 4.858 dighe completate e altre 313 in costruzione, per un totale di 5.171. Se prendiamo 5.000 come cifra arrotondata, moltiplicandola per una media di 20.000 sfollati per diga, si arriva ad un totale di 100 milioni di persone sfollate a causa della costruzione delle dighe.

Come la Roy afferma, “Le grandi dighe per lo sviluppo di una nazione sono come le bombe nucleari per il proprio arsenale militare. Entrambe sono armi di distruzione di massa [….] simboli che rappresentano il momento in cui l’intelligenza umana ha soverchiato il proprio istinto di sopravvivenza [….] indicazioni che la civiltà si è rivoltata contro se stessa“.

Le dighe non sono le uniche iniziative per lo sviluppo che implicano l’allontanamento forzoso delle persone, ma sono inclusi anche l’allevamento del bestiame, il settore agroalimentare, le industrie di carta e cellulosa, la costruzione di autostrade e i poligoni militari, tutte attività che richiedono – se non pretendono – il sacrificio umano. Come afferma David Kopenawa, leader Yanomani e difensore dell’Amazzonia, “Tutta la merce che ha valore per i bianchi non potrà mai avere lo stesso valore degli alberi, dei frutti e degli animali della foresta. Nessuna somma di denaro potrà mai risarcire dagli incendi di foreste, dalla devastazione del territorio e dall’inquinamento dei fiumi” [iii]

Viviamo in un universo incontrollato in cui i ricchi e i potenti utilizzano le armi che si adattano maggiormente alle situazioni – sia che si tratti di bombe e carri armati, oppure di dighe, miniere e industrie inquinanti – per promuovere i propri obiettivi, in tal modo distruggendo la vita delle persone più deboli e vulnerabili. Tutti noi deploriamo il dramma dei rifugiati che si trovano alle porte dell’Unione Europea, ma siamo ciechi e indifferenti nei confronti di coloro che vivono e muoiono in altre zone del mondo. Cercando di imporre la nostra religione, la nostra politica, il nostro modo di vivere consumistico e le nostre fantasie sullo sviluppo di altre popolazioni, finiamo per rovinare sia loro che l’ambiente in cui vivono. Gli imperativi militari e lo sviluppo economico sono troppo importanti e sembra che frenarli non sia permesso.

[i] Un richiedente asilo politico è una persona che ha richiesto lo stato di rifugiato ma ancora non le è stato concesso.

[ii] La definizione formale è lievemente più elaborata.

[iii] David Kopenawa con Bruce Albert, Le chute du ciel (The Falling Sky), Parigi 2010.

Benedetta Monti

Traduttrice freelance dal 2008 (dall'inglese e dal tedesco) soprattutto di testi legali, ama mettere a disposizione le sue competenze anche per fini umanitari e traduzioni volontarie.

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