29 Marzo 2024

Parlare di diritti in Africa, Obama e il ruolo del leader

I diritti umani sono affari privati e rispettarli riguarda i singoli Stati oppure sono – se non acquisiti universalmente – almeno universali nei principi? La visita di Barack Obama in Kenya ed Etiopia mette di fronte a queste domande.

Il presidente degli Stati Uniti avrebbe applicato la seconda scelta: i diritti umani sono universali, vanno rispettati, riconosciuti, applicati. Su due questioni Obama si è soffermato in particolare: il diritto dei gay a non essere tormentati per la loro scelta di vita e il diritto dei cittadini di sperimentare l’alternanza di Governo. Non più discriminazioni e galera per gli omosessuali, non più dittature o presidenti a vita, se vogliamo usare un eufemismo. Questa la sostanza.

Dal Kenya. Foto dell'utente Flickr Paul Schreiber pubblicata con Licenza CC

Quella di Obama è stata una presa di posizione criticata, fortemente osteggiata da molti che lo hanno invitato a “farsi gli affari propri”, compresi i leader africani, Uhuru Kenyatta in testa  che hanno risposto: i diritti LGBT non sono una priorità né per noi né per i nostri cittadini. Ma la “presa di posizione” di Obama dimostra che l’uomo e i Governi – ovunque – non vivono solo di economia e accordi commerciali. Sarebbe stato preferibile che anche Matteo Renzi facesse lo stesso nelle sue visite nel continente africano. Non bastano parole generiche del genere: voi giovani africani siete il futuro, bisogna aiutare i giovani qui in Africa così con scapperanno in Europa, bisogna agevolare gli investimenti in Africa. Non basta portarsi dietro Eni e Finmeccanica per sperare davvero di contribuire alla crescita dell’Africa e al futuro dei suoi giovani. Quali giovani, come vivono questi giovani, che sfide incontrano ogni giorno, quanto e cosa subiscono dai loro Governi e da una società spesso chiusa e corrotta?

Queste sono domande da porsi, domande da porsi come leader. L’economia è importante, certo, ma i diritti lo sono altrettanto per i nostri G8?

All’uomo non servono accordi commerciali, all’uomo non servono accordi di comodo tra Stati. O, almeno, non solo. Tutto questo dovrebbe venire semmai dopo che a questi uomini e donne siano stati riconosciuti i diritti riconosciuti ad altri, in altri Paesi. O che sia permesso loro di lottare per questi diritti, che sia riconosciuto il loro sforzo. Di questa lotta, di questo sforzo la comunità internazionale dovrebbe prendere atto ma soprattutto, dovrebbe appoggiarla.

I giovani africani non hanno bisogno di frasi di circostanza. Hanno bisogno di coraggio e di sapere che sulla comunità internazionale possono contare.

Le parole di Obama – dicevamo – hanno scatenato repliche furiose. Senza contare la mobilitazione delle chiese cristiane nel continente africano. Parlare di omosessualità – e soprattutto di diritti per gay e lesbiche – è un grande, enorme tabù. I commenti sulla stampa africana e sui social media si sono sprecati: come osa questo rappresentante dell’imperialismo – e non importa se sia mezzo nero – portare in casa nostra queste idee peccaminose e schifose? L’omosessualità viene dall’Occidente, qui non abbiamo bisogno di queste idee. In questa frase è la sintesi del pensiero e delle reazioni di molta parte dell’opinione pubblica africana.

Meno violente sono state le reazioni all’invito di Obama ai Capi di Stato a lasciare il mandato alla scadenza naturale evitando gli abusi e le modifiche costituzionali fatte solo per restare al potere. Sono questioni interne, ce le gestiamo come vogliamo.

Ma è “Obama mind your own business” (Obama fatti gli  affari tuoi) ad aprire la breccia vera, a mobilitare il pensiero di parte degli intellettuali africani e a spostare il discorso su una dimensione più ampia: rimanere – come leader – in casa propria evitando di intercedere nelle politiche, anche se si tratta di diritti sociali e civili, degli altri Paesi o denunciare quello che c’è da denunciare, far sentire la propria voce anche in casa degli altri?

Obama fatti gli affari tuoi è il titolo di un articolo pubblicato su Al Jazeera, che sottolinea l’imperialismo USA che vuole farsi spazio ovunque, il solito paternalismo e l’ipocrisia di un mondo occidentale che guarda e giudica i fatti degli altri senza pensare ai propri. L’autore ricorda le violenze commesse dalla polizia statunitense nei confronti dei neri, il razzismo evidente che affligge il Paese, la criminalità, l’altissimo tasso di persone di colore nelle carceri. E ricorda anche il ruolo dell’America nel sostenere regimi e dittature sul continente africano, prassi mai interrotta. Un’ottima analisi, un’ottima critica.

Ma – ci domandiamo – perché tutto questo dovrebbe impedire ad Obama di rispondere a chi gli fa una domanda in conferenza stampa? Perché dovrebbe restare muto di fronte alla vittimizzazione dei gay (in Africa l’omosessualità è illegale in 36 Paesi su 54), di fronte alla democrazia apparente di certi Paesi e alla loro corruzione? Ma soprattutto la questione è: perché i leader, capi di Stato africani tacciono? Perché non insorgono per i cittadini che lasciano i loro Paesi e vengono a vivere in condizioni spesso poco dignitose nei Paesi occidentali, molti ridotti in schiavitù – donne sulle strade, uomini nei campi di pomodori -. Perché non insorgono sul trattamento degli afro-americani? Perché si fanno sentire così poco? Un leader dovrebbe forse dimenticare confini geografici quando si tratta di alzarsi e parlare di diritti. O i diritti umani sono un affare domestico e ognuno può applicarli e interpretarli a suo modo perdendo così il senso e la misura dell’universalità?

La questione è davvero complessa e va oltre questo evento: investe i rapporti tra l’intera Africa e l’intero mondo occidentale, l’oggetto delle critiche alla fin fine non sono le parole di Obama sui diritti dei gay, ma una storia lunga di relazioni tra due mondi che ancora non discutono alla pari. Per tutti quei meccanismi di forza, di aiuti e investimenti su cui si legano. Bisognerebbe partire da questo: sentirsi e parlarsi alla pari.

In ogni caso – per fermarci al motivo apparente – le parole di Obama rimangono, o meglio rimane il messaggio. E resta il supporto indirettamente espresso a quei milioni di giovani, a quelle associazioni e gruppi che – con meno clamore e spesso con paura, rischiando anche la loro vita – lottano ogni giorno perché i diritti umani diventino davvero universali. Anche per loro.

Manifestazione a Soweto, Sud Africa, per ricordare lo stupro, la violenza e l'omicidio di due donne lesbiche. Foto di Charles Haynes pubblicata con Licenza CC

In Africa i capi di Stato occidentali saranno sempre accolti a braccia aperte quando verranno a parlare di progetti, investimenti, cooperazione etc.etc. Ma la sfida vera in questo continente è toccare argomenti scomodi.

La sfida vera – e qui apriamo brevemente un altro fronte –  consiste nello scardinare pregiudizi e abusi, nello smettere di pensare che l’Africa sia una cosa a sé, dove si possono fare affari con i tiranni ma si evita di criticarli, dove si possono visitare slum e convincersi che sia normale, dove si può ricorrere alla pratica dello “stupro correttivo” impunemente, dove un uomo può essere brutalmente picchiato o anche bruciato vivo solo perché gay o dove ci sono Paesi che condannano e puniscono ai termini di legge l’omosessualità. Sono cose che qualche volta accadono anche in Europa? Sì, ma non è normale. E bisogna smettere di pensare che in Africa lo sia e che siano solo, usiamo anche noi ora questo termine, affari loro.

 

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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