29 Marzo 2024

“Rifugiato” non equivale a “vittima”, contro un luogo comune

[Traduzione a cura di Davide Galati dall’articolo originale di Hanno Brankamp pubblicato su Pambazuka]

Gruppo di scolari al campo rifugiati di Kakuma, Kenya (Katie Allan/JRS su licenza CC)
Gruppo di scolari al campo rifugiati di Kakuma, Kenya (Katie Allan/JRS su licenza CC)

Con il susseguirsi delle situazioni di crisi relative a rifugiati e migranti in corso nel Mediterraneo, in Kenya, Myanmar, Siria, Burundi e altrove a riempire i titoli dei giornali internazionali, l’attenzione dell’opinione pubblica viene giustamente richiamata a tutte quelle persone che sono direttamente colpite dalla guerra, dalla povertà o dalle persecuzioni. Per molti, gli sfollati, i rifugiati e i richiedenti asilo sono soprattutto anime sfortunate, devastate e spogliate della loro umanità da guerre civili apparentemente senza fine, dittature o stagnazione economica. Eppure, per quanto controintuitivo, le rituali manifestazioni di compassione sui media e sulla scena politica occidentali svolgono un cattivo servizio alle attività in favore dei rifugiati perché involontariamente – e falsamente – riducono lo stato di rifugiato a uno stato di inazione e passività, e i campi profughi a luoghi con poca speranza e “non conosciuti”, usando una nota osservazione di Edward Said [1].

Nel periodo immediatamente successivo alle evitabili morti di centinaia di immigrati arabi e africani nel Mediterraneo, lo scorso aprile, gli analisti e i media evocavano ancora questo senso di disperazione, rinuncia e sconfitta da parte di quelle persone che affrontavano il proprio pericoloso viaggio verso l’Europa, pagando alla fine con la loro vita il sogno di una vita migliore e sicura.

“Stoccaggio” di rifugiati?

Il messaggio implicito di queste varie rappresentazioni era indirizzato – piuttosto correttamente – all’obbligo morale e legale dell’Europa di salvare chi annega proprio sulla sua porta di casa, a vista dalle sue coste. Comprensibilmente, i ben intenzionati attivisti per i diritti umani, i politici di sinistra e le agenzie umanitarie hanno usato le stesse immagini per creare consapevolezza tra i media occidentali, la società civile e l’opinione pubblica. L’International Rescue Committee (IRC), ad esempio, parla di “stoccaggio” dei rifugiati. Non solo sono diventati sempre più irrilevanti nel linguaggio popolare i confini tra ‘migrante’ e ‘rifugiato’, tra ‘richiedente asilo’ e ‘sfollato’ sino a un punto di indistinguibilità, ma per questi diversi gruppi si immagina che debbano condividere inevitabilmente un destino comune.

Se questi strategici ritratti di vittime “essenziali” sono – per ironia – guidati dalle intenzioni lodevoli di suscitare dibattiti e, nel migliore dei casi, provocare risposte politiche, è evidente che tutto ciò alimenta e prolunga una narrazione problematica in termini di ‘rifugiato-vittima’. Nella quale, i rifugiati – o i migranti (forzati) in generale – si caratterizzano come folle inermi, indistinte che vengono salvate dalle Guardie Costiere e trasportate da gommoni sovraccarichi sul punto di affondare a sicure navi militari, o come corpi indigenti, con il vuoto negli occhi, provenienti da luoghi inabitabili, abbandonati e sacrificati. Detto questo, le storie indicibili di dolore e devastazione non sono una finzione ma una realtà per quei milioni di persone, e meritano moltissimo di essere raccontate. Però, nel continuare a insistere su scenari di trauma e perdita, questa comunicazione è paradossalmente  di ostacolo al linguaggio di “empowerment” degli agenti umanitari. I benefici a breve termine della proliferazione di tali immagini con il loro potere metaforico devono quindi essere valutati in modo critico, riflettendo sulle ripercussioni potenzialmente negative rispetto alle convinzioni popolari e agli atteggiamenti verso i migranti (forzati) in generale. Attraverso le parole della nota studiosa Jennifer Hyndman, “la popolarità e simpatia per gli sfollati da parte dei governi occidentali sta proprio nella loro collocazione ‘laggiù'” [2].

Linguaggio e biopolitica

A questo proposito, risultano sintomatiche le variazioni nell’uso del linguaggio. Parlando di “migranti”, o “immigrati” – piuttosto che di “persone che emigrano” – o “rifugiati” in contrapposizione a” persone che cercano rifugio” stabiliamo semanticamente un “noi” separato da un plurale “loro” senza discernere e fare riferimento alle persone reali. Certo, questo è anche una scelta pragmatica. E avrebbe inoltre poco senso ora sostituire quei termini, anche a causa della mancanza di alternative significative. Marcando tuttavia queste persone, le strutture gerarchiche di esclusione e di denominazione del potere globale che diffondono la xenofobia e il razzismo vengono internalizzate, rafforzate, cementando l'”altro” come una norma sociale preoccupante. Ovviamente, tutti coloro che partecipano a questo discorso sono in diversi gradi complici. Inoltre, questa apparente separatezza dei rifugiati da “noi” – sia nel diritto che nell’immaginazione – ritrae “loro” come in qualche modo-non-umani, come una forma di vita, che sfida gli standard a cui più teniamo per noi stessi.

In questa creazione di una dicotomia tra “rifugiati” e “persone” risiede alla fine il punto cruciale: un’incompatibilità apparente di sofferenza e azione umana. Molte persone, soprattutto nelle società occidentali, sperimentano una dissonanza cognitiva. Trovano difficile conciliare le immagini di giovani Eritrei, Rohingya o Siriani in fuga dalla violenza, dall’oppressione o dalle brutali guerre civili con un concetto apparentemente opposto di quegli stessi individui che utilizzano Facebook, Twitter o smartphone costosi. Normalmente ci si sorprende di sentire che i rifugiati passano il loro tempo in bar, caffè, cinema di fortuna o ‘alberghi’ – il tutto in un campo profughi – piuttosto che in un luogo anonimo di sofferenza. In un articolo del 2013, il Daily Mail ha definito il campo profughi di Zaatari in Giordania la città “più deprimente del mondo”. E’ inutile dire che non sto pensando ai campi profughi come luoghi particolarmente ameni. Chiunque abbia visitato o lavorato in un campo sa che non lo sono. I campi profughi sono luoghi scomodi, difficili in cui la ‘biopolitica’ contemporanea si dispiega pienamente nella forma di controlli, sorveglianza, statistiche e distribuzioni di cibo. Nonostante questo, tale governance biopolitica è tutt’altra cosa da un regime totalitario e lo sguardo dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) non è onnipresente. I residenti nel campo – sicuramente a seconda del diverso background sociale e culturale – si impegnano in svariate attività socioeconomiche come il commercio, le imprese, i matrimoni, le discussioni, i litigi, e – ovviamente – guardare e giocare a calcio o ad altri sport. Come ciò appare semplice e familiare a professionisti e accademici della migrazione forzata,  quasi tutti gli altri ne sono inconsapevoli.
Per sostenere questo miraggio, il pericoloso passaggio di persone sul Mediterraneo o in un paese limitrofo è riprodotto nel discorso pubblico come un ‘processo di pulizia’ interno in cui l’individuo diventa un rifugiato sofferente, finalmente ‘degno’ di attributi da vittima. In maniera quasi religiosa, rifugiati visibilmente sofferenti diventano quindi l’incarnazione pura della vita umana e dello spirito di sacrificio. Un vero rifugiato è dunque chi agisce di conseguenza e soffre in modo permanente. Questo è allarmante. Il sociologo olandese Jan van Dijk nota che le cosiddette ‘vittime’ perdono facilmente la compassione e l’empatia di altri una volta che si comportano “in un modo non-da-vittima, non esibendo il comportamento passivo considerato normale per le vittime” [3].

“Persone comuni che vivono in tempi straordinari”

Mentre gli accademici esperti di migrazioni(forzate) sono spesso a conoscenza di queste complessità, la percezione del pubblico è invece molte volte dettata da scetticismo rispetto a chi cerca di far riconoscere i rifugiati quali persone ‘come me e te’ che si trovano ad affrontare circostanze terribili. A prima vista, la differenza tra le due narrative sembra marginale. Riconoscere tuttavia i migranti forzati come persone con competenze, abilità e forza non delegittima la loro richiesta di asilo e rifugio, al contrario, dovrebbe rendere il loro caso più pressante se sono visti come sono, piuttosto che come ci si aspetta che siano. Questa prospettiva sfida i concetti predominanti di passività e di inerzia che sono così diffusi nella maggior parte dei mezzi di comunicazione e informano l’azione politica. Lo slogan dell’UNHCR in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato 2015, “Persone comuni che vivono in tempi straordinari” potrebbe rappresentare un passo nella giusta direzione. Nonostante questo potenziale positivo, l’obiettivo di una strategia come questa non può essere la celebrazione acritica di uguaglianza (“come me e te”), echeggiando un discorso liberale ed eurocentrico che cerca di minimizzare la differenza senza affrontare diverse posizioni di potere, prodotte dalla storia, tra “noi” e “loro” relativamente agli aspetti socio-economici, politici, culturali e razziali.

In particolare, le organizzazioni umanitarie e dei diritti umani si trovano ad affrontare un dilemma quasi irrisolvibile. Cercando di fare appello ai donatori per -senza dubbio- operazioni molto importanti di emergenza e di protezione giuridica, questi attori sono costretti a pensare e ad agire in modo strategico e quindi a raffigurare i rifugiati come beneficiari passivi -fotografati in un mare di tende bianche dell’UNHCR- al fine di giustificare e garantire la fornitura di materiale e alimenti provenienti dai Paesi donatori. Ricordando i ventri gonfi di bambini affamati sui manifesti delle ONG, questa ‘effetto-tenda-bianca’ dà un’immagine dei rifugiati come una classe di non abbienti e virtualmente come ‘morti viventi’. Naturalmente, queste osservazioni analitiche non negano che le persone che sono state sfollate abbiano bisogno urgente di assistenza d’emergenza e che debbano compiere scelte di vita inimmaginabili. Al contrario, persone che hanno perso case, posti di lavoro, parenti, la propria vita quotidiana, devono essere prese sul serio, non come “nuda vita” -come ha sostenuto il filosofo italiano Giorgio Agamben [4]-, ma come membri attivi e consapevoli di una comunità politica globale.

In conclusione, le immagini di riferimento quasi ritualizzate in forma di ‘vittimismo’ verso i rifugiati servono più a dimostrare la compassione (spesso inconcludente) dell’Occidente e la sua autoaffermazione, piuttosto che stimolare un cambiamento significativo nell’atteggiamento popolare o nella politica. Seduto in un frequentato caffè nel campo profughi di Kakuma, nel Kenya nord-occidentale, con Elias, giornalista indipendente e rifugiato etiope, non posso fare a meno di notare due segnali di avvertimento in evidenza che dichiarano “Questa non è una zona di defecazione all’aperto!” e “Lavarsi le mani prima e dopo aver mangiato!”. Elias si rivolge a me sorridendo e mi chiede “ma queste persone cosa pensano che noi siamo?” [5].

[1] Edward W. Said, After the Last Sky: Palestinian Lives (New York: Columbia University Press, 1999), p. 21.
[2] Jennifer Hyndman (2000): Managing Displacement: Refugees and the Politics of Humanitarianism, (Minneapolis: University of Minnesota Press), p. 27.
[3] Jan van Dijk (2009): ‘Free the Victim: A Critique of the Western Conception of Victimhood‘, In: International Review of Victimology, 16, p.15.
[4] Giorgio Agamben (1998): Homo Sacer: Sovereign Power and Bare Life, (Stanford: Stanford University Press).
[5] Intervista, Kakuma, 18.03.2015.

Davide Galati

Nato professionalmente nell'ambito finanziario e dedicatosi in passato all'economia internazionale, coltiva oggi la sua apertura al mondo attraverso i media digitali. Continua a credere nell'Economia della conoscenza come via di uscita dalla crisi. Co-fondatore ed editor della testata nonché presidente dell’omonima A.P.S.

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