Cos’hanno in comune una giovane masai e una “pastora” delle Alpi? Per saperlo, la giovane masai e la bergera dovrebbero avere la possibilità di incontrarsi, scambiarsi esperienze, imparare a conoscersi. Sembra impossibile o perlomeno irrealistico. Eppure è accaduto. Ed è diventato un film. L’idea nasce da incontri fortuiti: prima con Silvia, una donna di 59 anni che da quando ne aveva 8 vive con il suo gregge nella Valle Gesso e negli spazi sconfinati delle Alpi Marittime, l’altro con Leah, una giovane di 25 anni che i suoi spazi sconfinati della Rift Valley del Kenya li aveva lasciati per cercare un futuro diverso: Nairobi, un mondo nuovo, l’università.
Sandro Bozzolo ha vissuto questi incontri per quelli che erano, qualcosa di speciale. Storie diverse di donne, di coraggio, di determinazione. Storie che il giovane regista ha voluto raccontare e condividere. È così che è nato “Il murràn. Maasai in the Alps“. Un film e un libro che sono anche un progetto antropologico e sociale. Il regista piemontese è riuscito a convincere Leah – questo il nome della masai – a diventarne protagonista e, dopo 16 mesi di tentativi per l’ottenimento del visto, a portarla in Italia. A portarla sulle Alpi. E a farle incontrare Silvia.
Due culture diverse – entrambe legate alla pastorizia tipicamente maschile – che hanno trovato il modo di accogliersi e, in alcuni momenti, fondersi. Due donne che, ciascuna a suo modo, hanno sfidato le tradizioni, hanno scelto la propria strada con coraggio e pragmatismo, dimenticando ruoli definiti e sfidando la società. Due storie che riescono a diventare una, nello sforzo quotidiano di conoscersi e lavorare insieme, badando al gregge e facendo il formaggio lì tra le montagne. Murràn in lingua masai significa guerriero. Un nome che non ha femminile. Ma Silvia e Leah sono questo, due guerriere.
Il film/documentario, prodotto dall’Associazione Geronimo Carbonò e dall’Ecomuseo della Segale di Valdieri, ha anche una motivazione sociale, perché anche lassù tra le Alpi c’è chi usa il colore della pelle per fare politica. In un territorio dove i pastori sono “usati” da certi partiti come elemento della tradizione da contrapporre all'”imbastardimento” della popolazione a causa della presenza degli immigrati, Leah e Silvia dimostrano quando sentimenti di vicinanza e di amicizia siano più naturali all’essere umano che il rifiuto dell’altro. Nel film, che non ha dialoghi, ma è tutto in presa diretta, Silvia parla esclusivamente il suo dialetto mentre racconta la sua vita, i sacrifici, le difficoltà. Leah, invece, parla inglese e racconta della voglia di essere donna masai senza che questo voglia dire l’infibulazione, l’obbligo del matrimonio, l’impossibilità di studiare, la chiusura ad altre realtà.
“Leah – spiega il regista nel libro di accompagnamento al film, che contiene l’esperienza sulle Alpi e i dialoghi di quei giorni – è una guerriera, nel senso più autentico del termine. Combatte per la propria gente la battaglia più difficile, quella che va portata avanti proprio ‘contro’ la propria gente, per cambiare certe consuetudini arcaiche che porterebbero alla distruzione e alla definitiva estinzione della cultura masai”. “I Masai – racconta Leah – devono capire che se alcune usanze non vengono abbandonate, molte ragazze partiranno per non tornare mai più e rifiuteranno per sempre un sistema culturale che invece racchiude molti elementi positivi”.
Sulle Alpi le due donne hanno trascorso circa tre mesi. Con loro lo staff del film e Simone, il figlio di Silvia a cui lei sta passando il testimone. Eppure, queste due donne si percepiscono come se fossero sole e uniche, in un contesto arcaico che le ha rese unite e amiche. Una comprensione fatta di sguardi, gesti, movimenti. E di alcune scene belle e poetiche, come quando Leah massaggia la schiena di Silvia che ha dolore o come quando ridono insieme e si divertono come bambine.
Ho conosciuto Silvia andando sulle Alpi con un mio caro amico prete che portava la benedizione ai pastori, Leah invece a Nairobi in un sorta di party tra intellettuali ed espatriati, un contesto che avrei ritenuto assai improbabile per una donna masai. Entrambe avevano lasciato in me un segno e, nelle mie riflessioni successive continuavo a pensarle e vederle insieme. L’idea del film è stata in realtà una folgorazione, ma ci è voluto un po’ – a causa della burocrazia – per farla diventare realtà. Una parte decisiva l’ha giocata Slow Food e il suo presidente che, una volta conosciuto il progetto, ci ha aiuto a portare Leah in Italia. Non solo, dopo averla conosciuta le è stata offerta una borsa di studio per frequentare l’Università del Gusto a Pollenzo.
Quali sono gli obiettivi del progetto?
L’obiettivo principale è vivere un’esperienza antropologica al contrario. Volevo far conoscere la realtà di Silvia innanzitutto. Ci sono persone che in fin dei conti non vivono così lontano da lei – comunque dal mondo dei pastori in generale – ma alla fine non ne sanno nulla. È come se ci fosse una barriera tra lei e gli altri, e in questi altri sono compresi non solo i cittadini delle valli e delle città vicine, ma anche delle stesse autorità che il mondo della pastorizia dovrebbero conoscerlo… Leah, con i suoi abiti tradizionali, le cicatrici rituali sul volto, la sua provenienza, in questo contesto rappresenta anche una metafora, uno specchio. La metafora della vita selvaggia, di popoli primitivi, di storie pagane che sembrerebbero lontane e invece ce le ha addosso anche Silvia.
Quali sono i momenti più belli delle fasi di ripresa?
Alcuni dei momenti più belli sono stati anche quelli che non ho voluto turbare prendendo in mano la macchina da presa. Quando Silvia e Leah si sono incontrate è stato in qualche modo divertente: Silvia ha cominciato a studiare Leah e poi ha detto: sarà pure una masai ma si dipinge le unghie… Altra cosa interessante è stato scoprire che, durante le transumanze, ogni volta che incontravamo fiumi o ruscelli Leah beveva. Ho provato a spiegarle che i mesi estivi sono quelli del disgelo e si trova tanta acqua ma per lei è atavico, quando si ha la fortuna di incontrare l’acqua meglio approfittarne e bere… Altri momenti topici sono quelli in cui Silvia racconta se stessa e Leah si domanda: cosa vuol dire essere masai?
Hai detto che questo è anche un progetto antropologico e sociale…
Sì, abbiamo cominciato a portare il film e il libro nelle scuole, il dibattito con i ragazzi è sempre ricco e costruttivo e anche la presenza delle due donne è molto formativa per i giovani che fanno sempre tante domande.
E il film? Come pensate di diffonderlo?
La nostra intenzione è portarlo a vari festival del cinema indipendente. Intanto il film è stato inserito nella programmazione ufficiale del Trento Film Festival e sarà presentato al pubblico il 9 maggio.
Come è stato lavorare con due donne così diverse tra loro?
In realtà si è creata tra loro una grande solidarietà, a tratti si percepiva che io e la mia videocamera eravamo degli intrusi e c’è stata più di una volta in cui si sono, diciamo così, prese gioco di me. Un giorno, stanche di avermi tra i piedi, Silvia da lontano si è girata e mi ha mostrato il dito medio – io stavo filmando – poi entrambe si sono messe a ridere di gusto e si sono abbracciate.