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Giustizia di transizione e cambiamento dell’ordine mondiale

[Traduzione a cura di Manuela Beccati dall’articolo originale di Adam Branch * pubblicato su Pambazuka News]


Mappa che raccoglie tutte le Commissioni per la Verità e Riconciliazione, Museum of Memory and Human Rights, Santiago, Cile. Foto su Wikipedia in CC.

La designazione retorica dei processi di giustizia transizionale sotto la sigla “GT” sembra fatta più per tenere in piedi sistemi oppressivi che per apportare dei cambiamenti reali laddove sono richiesti. La giustizia di transizione dovrebbe essere usata come un catalizzatore di cambiamenti sistemici veri, caso per caso, e non come una ricetta neoliberista applicabile ovunque.

Il nuovo approccio su questo tema rappresenta un correttivo importante alla tendenza prevalente in questo settore. In quest’ottica, vengono prese in considerazione la domanda di risorse naturali, le questioni di genere, le relazioni internazionali e la violenza strutturale [Johan Galtung distingue tre tipi di violenza: culturale, strutturale e diretta, per approfondimenti leggi qui, NdT]. Questo è in contraddizione alle tendenze sempre più ristrette che caratterizzano la maggior parte delle discussioni sulla giustizia di transizione, soprattutto in Occidente.

In questo contesto, dominato dall’Occidente, la giustizia di transizione è stata associata ai principali regimi di transizione, soprattutto con la fine degli Stati socialisti e autoritari, ed è stata ridotta a una “borsa degli attrezzi” in cui gli attori internazionali scelgono lo strumento che permetterà loro di raggiungere l’obiettivo desiderato, in qualsiasi parte del mondo. È diventata una forma di governo tecnocratico internazionale, in un percorso in cui la giustizia di transizione è diventata “GT”.

Questa GT, promossa dall’industria della GT stessa, ha guadagnato importanza a seguito dell’intervento degli Stati Uniti, alla fine della guerra fredda, e del neoliberalismo globale.

Trasformando la giustizia di transizione in una sigla orecchiabile di sole due lettere, l’industria della GT ha cancellato molti dei significati e delle variegate possibilità presenti nelle singole voci: “giustizia” e “transizione”. Le due parole per esteso contengono ogni sorta di opportunità e interpretazioni ad esse afferenti. E invece di fronte a una sigla, si ha una parola chiave il cui significato è sotto il controllo di quell’industria che lo ha inventato e promosso.

Cancellando altre possibili definizioni di giustizia transizionale, la macchina della GT ha perciò creato una scatola di “arnesi” politici – la Corte Penale Internazionale (CPI), i tribunali ibridi, le Commissioni di Verità e Riconciliazione, i procedimenti nazionali e avanti così – che si mettono all’opera universalmente solo in determinate circostanze. Questo desiderio costante di perfezionare gli strumenti di GT, la ricerca di risorse tecniche applicabili in tutto il mondo, ha portato all’impossibilità di vedere i significati alternativi o che hanno un diverso approccio alle qualità che hanno le parole “giustizia” e “transizione”.

Che cosa resta fuori, riducendo la giustizia di transizione a GT e limitandola al modello di governo neoliberale? Quali sono le aree che l’industria della GT esclude?

In primo luogo, la GT limita le misure giudiziarie che possono essere adottate per la gestione di un discreto numero di episodi di violenza del passato, e ciò è una forma di cecità di fronte alla crescente e diffusa ingiustizia dell’ordine politico ed economico odierno. La GT lascia da parte l’economia: non ci può essere una transizione fuori dal capitalismo neoliberale, dice l’industria GT. La redistribuzione della proprietà privata, o di altre politiche che sarebbero necessarie per promuovere la giustizia sociale ed economica, sono inaccettabili; in realtà, potrebbero essere condannate in quanto viste come una violazione dei diritti umani.

La GT ignora le forze internazionali all’opera durante i periodi di violenza politica prolungata, e ignora gli aspetti oscuri del neocolonialismo o dell’imperialismo. La GT esclude visioni alternative di ordine politico che dovrebbero essere il punto di arrivo delle transizioni.

Per ricordarci quanto sia limitata la GT, basta guardare un po’ indietro e scorrere i diversi significati che hanno posseduto le parole “giustizia” e “transizione”. Sono trascorsi solo pochi decenni dalla descrizione di Frantz Fanon, quando la giustizia di transizione poteva essere vista come una giustizia rivoluzionaria, come la giustizia che si presenta con un ordine completamente nuovo, la giustizia che rende primo l’ultimo. La giustizia di transizione potrebbe essere intesa come la transizione verso l’autodeterminazione, l’eliminazione del dominio coloniale, l’abolizione dello sfruttamento e dell’imperialismo, la redistribuzione radicale delle terre e delle risorse. Se non addirittura essere collegata alla giustizia globale, la giustizia di solidarietà transnazionale o l’internazionalismo. Potrebbe anche significare la transizione lontano dal capitalismo neoliberale e dallo Stato moderno stesso.

Tuttavia, queste visioni alternative di giustizia di transizione vengono ignorate perché non sono conformi alle norme liberali o dei diritti di proprietà. Vengono ignorate perché non si conformano al rispetto assoluto delle strutture internazionali di potere esistente o di ordine economico internazionale.

Vediamo allora queste strutture politiche ed economiche internazionali elencate nella GT: la GT in Africa non è sostenibile, non è nemmeno possibile, senza finanziamenti da parte dei donatori. La “necessità” di un sostegno dai donatori è implicito nel modello di GT. Per contro, l’idea che il finanziamento da parte degli Stati occidentali o dei donatori fossero necessari per attuare la giustizia di transizione in Africa poteva sembrare assurdo fino a pochi decenni fa ed era considerato reazionario e neocolonialista. L’idea che i finanziamenti dei donatori fossero necessari per la lotta anti-coloniale era impensabile.

Attualmente, abbiamo un’opportunità unica per ripensare la giustizia di transizione in termini più ampi: considerare la giustizia di transizione oltre la GT. Abbiamo l’opportunità di vedere non solo ciò che è sbagliato nella GT così come esiste oggi, ma di pensare alle possibilità che sono state scartate e potrebbero riapparire.

Questa opportunità si manifesta a partire dalle nuove circostanze di trasformazione storica globale: il declino dell’egemonia globale occidentale e l’ascesa di nuove potenze, in particolare la Cina. Il cambiamento dell’ordine mondiale offre opportunità senza precedenti per riflettere sulle diverse possibilità offerte dalla giustizia di transizione. Ci permette uno spazio per immaginare visioni o paradigmi politici alternativi che potrebbero alimentare una comprensione alternativa di giustizia di transizione.

Sta a noi, tuttavia, cogliere l’opportunità. Non possiamo restare in disparte e dare per scontato che l’ascesa della Cina e il declino dell’Occidente creeranno automaticamente nuove possibilità. Questo in ragione del fatto che ci sono convergenze significative tra la Cina e l’Occidente su modelli comuni di impegno in Africa. Da un lato, sono entrambi focalizzati su una stabilizzazione che fa capo allo Stato. Entrambi lavorano direttamente con altri Stati rafforzando la capacità di qualsiasi apparato di sicurezza, in ragione della responsabilità di proteggersi dalle rivolte, dal terrorismo o per fini dell’agenda della giustizia di transizione.

Sia l’Occidente che la Cina sono lieti di fornire massiccia assistenza militare in Africa e creare Stati militarizzati per la sicurezza in tutto il continente. La mia preoccupazione è che la differenza tra l’approccio cinese e occidentale sui temi della costruzione dello Stato, la stabilizzazione, lo sviluppo e la GT sia una differenza di grado piuttosto che di natura.

Soprattutto, ci sono alcune domande fondamentali che rimangono fuori dalle discussioni con la Cina e l’Occidente, relative ai loro impegni verso l’Africa. Andrebbero poste certe domande se vogliamo superare la GT e ripensare la giustizia di transizione stessa.

L’economia neoliberista – o si parli pure di capitalismo sotto l’egida statale – rimane un atto di fede, come l’orientamento a favore del capitalismo senza compromessi. Sia l’approccio cinese che quello occidentale sono “top down”, vale a dire centrati su un’élite, e focalizzati sulla sua sicurezza e sullo Stato. Nessuno propone una riforma fondamentale dello Stato stesso. Entrambi ignorano la questione di classe e lo sfruttamento. Entrambi hanno una visione di riforme rurali basate sul commercio spesso accompagnata dall’eliminazione massiccia delle terre e lo spostamento delle popolazioni. Inoltre la repressione da parte dello Stato passa sotto silenzio – la Cina non considera la repressione di Stato come una politica, e allo stesso modo l’Occidente ignora la repressione dei suoi alleati nella guerra contro il terrorismo.

Se questo è vero, la crescita della Cina e il declino dell’Occidente possono riprodurre le stesse restrizioni che hanno indebolito finora le attività dell’industria GT. Anche se la Cina dovesse pagare per le attività della GT, queste attività sono ancora prevalentemente tecniche, senza prendere in considerazione le trasformazioni economiche e politiche fondamentali, separate dalle questioni di potere internazionale. Una GT con caratteristiche cinesi sarebbe molto simile alla GT di oggi.

Con tutto ciò, non possiamo permettere che anche la Cina sia imperniata su una stabilizzazione che si basa sullo Stato quale l’Occidente l’ha disegnata, e perdere quest’unica occasione storica per ripensare la giustizia di transizione. Non dobbiamo permettere che la nostra immaginazione del futuro debba essere vincolata dal quadro definito dal governo neoliberista dell’Occidente e l’egemonia americana nel periodo post guerra fredda.

Dobbiamo cominciare a vedere i cambiamenti all’opera in questi giorni andando oltre il presunto declino dell’Occidente e l’ascesa della Cina. Non possiamo permettere a progetti sviluppati dall’Occidente, che danno un assetto a senso unico alle sue relazioni con l’Africa, di determinare il nostro modo di pensare ai nostri rapporti con l’Asia e l’America Latina, e al ruolo della giustizia di transizione in questi relazioni. Piuttosto, dobbiamo rivolgere il nostro sguardo sul mondo e cercare nuove visioni della giustizia e nuove soluzioni alle transizioni politiche che emergono.

Ci sono infatti nuovi progetti che nascono nel mondo, dallo spostamento a sinistra di molti governi latinoamericani alle manifestazioni popolari che si manifestano un po’ ovunque. Questi sforzi per generare transizioni e giustizia rimettono in discussione il capitalismo, lo Stato e il consenso neoliberale. Come può la giustizia transizionale essere trasformata integrando queste visioni di autodeterminazione e sovranità in ambito sociale, culturale, o economico? Quali visioni troviamo nella storia complessiva di altri, non l’auto-glorificazione dell’Occidente e l’avvento dei diritti umani, ma piuttosto nelle storie che sono state negate e ora, desecretate, riemergono e così le ricordiamo? Le storie che si ritrovano accomunate nella conferenza di Bandung: la solidarietà anti-coloniale, il non allineamento, la solidarietà afro-asiatica, fino alla Tricontinentale? Quali storie internazionali di solidarietà sociale possono fornire la base su cui fondare una giustizia di transizione evoluta? Gli asiatici in lotta per l’indipendenza africana e contro l’apartheid o gli africani che combattono il fascismo in Europa?

La giustizia di transizione è una domanda, non è una risposta. È un interrogativo al quale, tutti coloro che vogliono una transizione lontano dalle ingiustizie dell’ordine attuale, possono provare a rispondere.

* Adam Branch è professore associato in Scienza della Politica all’Università statale di San Diego. Il testo è stato tradotto dall’inglese da Elisabeth Nyffenegger.

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