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Tibet, l'”Ultimo Paradiso” in via di estinzione

[Pubblichiamo un breve reportage scritto da Franco e Roberto Galati, padre e fratello del socio di VG Davide Galati, recentemente rientrati da un viaggio in Tibet. Roberto ha pubblicato il suo diario integrale, di taglio più personale, qui; sue tutte le foto e il brano musicale pubblicati in questo post.]

La nostra idea di Lhasa prima di partire non corrisponde alla sua realtà: la capitale del Tibet è una città assediata, l’intera cultura tibetana è mortificata, la sua identità smarrita. Vediamo un mondo che forse aveva trovato una via per raggiungere la consapevolezza, un modello ideale. Ma è un mondo che si sta sgretolando, che stanno riducendo in polvere. Non c’è neppure una compenetrazione tra culture diverse, una convivenza anche forzata. E’ semplicemente un’invasione.

Il magnificente Palazzo del Potala, affollato da pellegrini tibetani che si confondono in mezzo ai rumorosi turisti cinesi e ai pochissimi turisti occidentali, è posto in una posizione dominante sulla grande vallata, dalla quale si vede una folle distesa di costruzioni nuove.
Un tempo c’erano terreni e un piccolo villaggio; ora un’anonima e fredda città cinese, geometrica, funzionale, senza anima. Cardi e decumani sistemati sul territorio senza tenere conto del contesto; piuttosto, quasi a volerlo maltrattare e umiliare. Funzionalità replicabile. Città prefabbricata.

La breve passeggiata nel dedalo di vicoli di Lhasa antica ci ha invece offerto la possibilità di poggiare lo sguardo sul popolo tibetano. Osservando questo popolo pensiamo che la sua salvezza stia proprio nei suoi monasteri, simbolo di un’identità molto forte che può quantomeno contrastare l’assedio.

Per riassumere la situazione politica del Tibet è istruttivo leggere quanto scrisse Simone Weil nel 1946 nel saggio ‘Sradicamento’, relativamente al tema di una conquista militare nel caso in cui il conquistatore rimanga straniero sul territorio che ha occupato e voglia inoltre sopprimere le tradizioni culturali locali.
Quanto descritto è avvenuto anche in Tibet, con la brutalità delle guardie rosse e della rivoluzione culturale all’inizio dell’occupazione cinese, 1951, e ora prosegue in modo surrettizio.

L’elemento storico nuovo, rispetto alle riflessioni di Simone Weil, è rappresentato dal fatto che, mentre gli altri imperi, nelle diverse epoche, non furono in grado di effettuare un’occupazione capillare, per insufficienza numerica dell’etnia dominante, la Cina può per converso sopperire a tutte le funzioni, anche quelle minime, con popolazione propria. Pertanto le autorità cinesi possono decidere persino di pianificare il rovesciamento delle statistiche demografiche del paese occupato; nello specifico caso, tra pochi anni, la popolazione cinese in Tibet risulterà maggioritaria.
L’afflusso di persone da altre province cinesi ha subito un’accelerazione dal momento dell’apertura completa della ferrovia del Qingzang che collega Lhasa con Pechino.

Molti aspetti di questa brutale occupazione risultano evidenti:

– posti di blocco con controlli frequenti su tutte le strade, talvolta anche in prossimità dei monumenti principali, ivi incluso l’ingresso al campo base dell’Everest;

– insegnamento della sola lingua cinese nelle scuole;

– quartieri cinesi che crescono come polipi attorno ai centri storici principali che, pertanto, sono destinati, nel tempo, a diventare musei o peggio riserve indiane.
L’elemento aggravante è che i quartieri cinesi sono edificati senza nessuna evidenza della loro millenaria cultura; in essi viene rappresentato il peggio che l’Occidente gli ha insegnato, unitamente all’orrido gusto di porre luminarie, schermi giganti nelle vie e nelle piazze, come se dovessero allestire un luna park.

Questo Paese subì anche nel passato occupazioni e violazioni della propria cultura. La più emblematica delle violazioni fu la decisione dell’impero britannico di ribattezzare il picco più alto della catena dell’Himalaya; infatti, nonostante fosse chiamato dai tibetani con il bellissimo nome di Chomolungma (“Dea Madre dell’Universo”), si ritrovò ribattezzato con il nome di Everest in onore di Sir George Everest, direttore dal 1830 al 1843 dei geografi britannici in India.

Il Tibet è un luogo paesaggisticamente meraviglioso. E’ un luogo fragile, che soccomberà sotto l’effetto della globalizzazione. Guardare coi propri occhi queste mutazioni, ancora in potenza o già avviate, comporta l’elaborazione di una forma di rassegnazione e di accettazione verso ciò che genericamente definiremmo cambiamento, evoluzione.
Il termine ‘impermanenza’ è l’essenza di questo viaggio, nulla resta per sempre, prima di tutto noi stessi.

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Nota, da “La Prima Radice”, S.Weil 1946.
Si ha sradicamento ogniqualvolta si abbia conquista militare e, in questo senso, la conquista è quasi sempre un male. Lo sradicamento è minimo quando i conquistatori sono un popolo migratore che si insedia nella terra conquistata, si mescola alla popolazione e vi mette radici. Questo è il caso degli elleni in Grecia, dei celti in Gallia, degli arabi in Spagna. Ma quando il conquistatore rimane straniero sul territorio che ha occupato, lo sradicamento è una malattia quasi mortale per le popolazioni sottomesse. Raggiunge il massimo livello quando vi siano deportazioni in massa, come nell’Europa occupata dalla Germania o nell’ansa del Niger, o quando vi sia una soppressione brutale di tutte le tradizioni locali, come nei possedimenti francesi dell’Oceania (se vogliamo credere a Gauguin e ad Alain Gerrbault).
Persino senza conquista militare, il potere del danaro e la dominazione economica possono imporre una influenza straniera al punto da provocare la malattia dello sradicamento.

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