A venticinque anni dalla prima Intifada, la questione israelo-palestinese si fa sempre più complessa e la sua soluzione sembra allontanarsi. Il popolo palestinese continua a lottare per ottenere almeno una parte di quanto gli è stato sottratto, rivendicando il diritto a uno Stato proprio e opponendosi all’opprimente occupazione militare. Molti sono i giovani palestinesi imprigionati dallo Stato israeliano senza giustificazione: tra questi Mohammad Sabaaneh, il cartoonist originario di Jenin, che è stato arrestato il 16 febbraio scorso al suo rientro da una conferenza tenutasi presso l’Arab-American University di Amman sulla base di accuse non ancora del tutto chiarite. La notizia è stata diffusa dal blog Cartoon Movement e sul profilo Facebook di Mohammad, dove amici e parenti gli hanno espresso la massima solidarietà.
Gli ultimi messaggi pubblicati su Facebook e Twitter risalgono al 15 febbraio. Poi nessuna traccia e notizia di lui.
Chi è Mohammad Sabaaneh? Un giovane che, come molti altri, dona attraverso l’arte del disegno, attraverso le immagini, scorci di quella che è la realtà del suo popolo, denunciando le ingiustizie subite: la sua è una forma di lotta, di resistenza pacifica che gli ha creato non pochi problemi.
Secondo le informazioni rilasciatemi dalla sorella, Mona Sabaaneh, Mohammad attualmente si trova presso il carcere di Jamaleh, dove non è permesso fargli visita. Dopo l’allungamento del suo periodo di detenzione, avrebbe dovuto essere giudicato dalla Corte israeliana oggi, 2 aprile, giorno in cui la famiglia avrà la possibilità di rivederlo. Le sue condizioni di salute sembrano ancora buone.
Alla domanda “Per quale motivo crede che suo fratello sia stato arrestato? Cosa pensa sia accaduto?”, la risposta è stata: “Non so nulla al riguardo. Posso solo dire che non vi è alcuna accusa che regga nei confronti di Mohammad”.
Scrivendo di Mohammad non posso non fare un accenno a tanti altri giovani che come lui lottano per la giustizia e la libertà. Il cartoonist appoggiava pienamente la campagna per la liberazione di Samer Al Issawi, questo lo si può notare anche dalle opere artistiche a lui dedicate.
Samer è in sciopero della fame da 249 giorni: il suo vuole essere un gesto dedicato a tutti i palestinesi che si oppongono all’occupazione israeliana e alle sue prigioni. Attualmente le sue condizioni di salute sono critiche.
Ecco cosa scrive Laila Tareq Assawi, la madre di Samer, in una lettera indirizzata al presidente Obama pubblicata su Nena News:
…Io sono una madre palestinese, come migliaia di altre madri palestinesi che soffrono nel dolore. Io sono la madre di Fadi, che fu assassinato da Israele nel 1994 nella primavera della sua vita, sono la madre di Midhat che è anche lui nelle carceri israeliane, sono la madre di Ra’fat al quale Israele ha demolito la sua casa e lasciato la famiglia senza fissa dimora, sono la madre di Shireen, Firas e Shadi che non hanno potuto evitare ripetutamente carcere e tortura…Voi, che arrivate da terra di pace, dopo essere stato incoronato con un premio Nobel per la pace e che attraverso i lunghi quattro anni di Presidenza non siete riuscito a realizzare un progetto di pace o indignarvi, questa è la vostra occasione per salvare Samer dai denti di questa brutale occupazione, in modo da non chiedersi con altri milioni di persone in tutto il mondo: perché sei venuto da noi?…
A livello mondiale sono tanti gli attivisti che si stanno mobilitando. Di recente ha avuto molta eco sui social network l’evento di solidarietà della durata di due giorni, 29-30 marzo, con lo slogan “Hungry for Justice Weekly Fast, Free Palestinian Political Prisioners Now”, in onore di Samer Issawi in digiuno da 249 giorni e degli altri prigionieri. L’obiettivo di queste giornate è quello di chiedere a Israele il rilascio di Ayman Sharawna, Tareq Qaadan e Jaafar Azzidine e degli altri prigionieri politici.
Riporto le parole scritte da Samer, in riferimento alla decisione da parte dello Stato israeliano di deportarlo a Gaza, in una lettera diffusa dal suo avvocato e pubblicata sul sito di Nena News:
…In merito all’offerta degli occupanti israeliani di deportarmi a Gaza, dico che Gaza è una parte indiscutibile della mia patria e la sua gente è la mia gente. Tuttavia, visiterò Gaza quando lo vorrò perché sento che è parte della mia patria, la Palestina, dove ho il diritto di viaggiare quando voglio dal profondo Nord al profondo Sud. Rifiuto con forza di essere deportato a Gaza perché questa è una pratica che riporta alla mente le espulsioni che noi palestinesi abbiamo dovuto subire nel 1948 e nel 1967.
Lottiamo per la libertà della nostra terra e il ritorno dei nostri rifugiati in Palestina e in esilio, non per aggiungere altri deportati. Questa pratica sistematica attraverso cui Israele punta a svuotare la Palestina dai palestinesi e sostituirli con stranieri è un crimine.Per questo, rifiuto di essere deportato e accetterò solo di essere liberato a Gerusalemme perché so che l’occupazione israeliana intende svuotare Gerusalemme dalla sua gente e trasformare gli arabi in una minoranza della sua popolazione. La questione della deportazione non è una decisione personale. È un principio nazionale. Se ogni detenuto accettasse sotto pressione di essere deportato fuori da Gerusalemme, Gerusalemme sarà svuotata della sua gente.…
Queste ci sembrano le parole di una persona che continua a resistere e a pensare al futuro. A resistere coltivando un’utopia concreta, la speranza.
Il nostro appello è quello di non restare a guardare il mondo come silenziosi spettatori.
Come sosteneva Vittorio Arrigoni, “la storia siamo noi, la storia la fanno le persone semplici che si impegnano per un ideale straordinario come la pace, per i diritti umani, per restare umani.”