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Tunisia, il momento della controrivoluzione

[[Nota: Traduzione a cura di Emanuela Ciaramella dall’articolo originale di Corinna Mullin pubblicato su openDemocracy]

Il tragico assassinio del politico di sinistra e difensore di diritti umani, Chokri Belaid in Tunisia  è uno dei tanti episodi di violenza politica perpetrati, negli ultimi mesi, per colpire il Paese. L’assassinio di Belaid ha lasciato la nazione sbigottita, e la scena politica è più che mai polarizzata. Con uno sciopero generale indetto giorni fa dal sindacato più seguito nel Paese, le proteste in corso, inclusa quella organizzata dal partito al governo An Nahda,  e l’appello all’esercito, – che vanta già un’incombente presenza nella Tunisia del post-rivoluzione e nello stato di emergenza in corso – ad entrare nell’arena politica in modo più massiccio,  fa apparire i giorni esaltanti dell’unità post-rivoluzione molto lontani.

Anche se la storia specifica degli eventi varia da persona a persona, a  seconda di fattori come la fedeltà politica e la posizione geografica, sembra che ci sia una cosa sulla quale si è in gran parte d’accordo: siamo di fronte ad  atti di controrivoluzionari. La divergenza al momento non è sul se, ma sul chi li abbia effettuati.

Il che rimane un importante pezzo del puzzle che, comunque, in nome della giustizia e della stabilità deve essere risolto. Le accuse rivolte al regime sono varie e si muovono verso ogni direzione, dal presunto collegamento di An Nahda a “Leghe” per sostenere la Rivoluzione, ai sostenitori dell’ancien regime che cercano di fomentare disordini e far deragliare le discussioni dell’assemblea costituente su una “legge di esclusione”, destinata ai membri dell’ex regime

Ci sono anche coloro che accusano le forze esterne, sia regionali che internazionali, di aver interferito per paura che l’assetto precedente potrebbe essere sostituito da un governo islamico ben accettato nella regione.

Da parte sua, un sempre più diviso An Nahda ha negato ogni complicità e ha promesso di avviare un’indagine per far luce sulla vicenda.

Il significato della controrivoluzione: non “rovesciamento” ma “opposizione” alla rivoluzione

Non dovrebbe coglierci di sorpresa il fatto che in Tunisia stia nascendo una fase controrivoluzionaria.

La storia è piena di esempi di rovesciamenti di rivoluzioni – o almeno di tentativi di rovesciamento – dovuti a macchinazioni di attori interni ed esterni che lottano con la realtà del nuovo ordine e con la paura di una sua potenziale diffusione.

Naturalmente la storia è anche piena di esempi di resistenza ai rovesciamenti, che porta molti a vedere la rivoluzione non come un evento finito, ma piuttosto come un processo in corso. Come ha suggerito l’attivista egiziano Omar Ali in relazione  all’esperienza che sta vivendo il suo Paese, “stiamo imparando che la rivoluzione è un processo continuo di partecipazione di massa, riorganizzazione sociale e consapevolezza“.

Uno dei più noti esempi di controrivoluzione è quello delle forze a favore della monarchia che  si opposero alla Rivoluzione francese del 1789. Nelle parole di uno dei protagonisti dell’epoca, Joseph de Maistre, la rivoluzione era un “grande crimine nazionale di un’insurrezione antireligiosa e antisociale coronata da un regicidio“.

Ciò che preoccupava maggiormente i contro rivoluzionari  francesi  era la minaccia posta all’ordine politico e sociale da una nuova e radicale forma di governo e di concezione di cittadinanza. La richiesta di una controrivoluzione, ai loro occhi, non era un appello a “una rivoluzione in direzione opposta” ma piuttosto un desiderio di le contraire de la Révolution. Se si considera che il cambiamento strutturale  è al centro della rivoluzione, allora si tratta di un ritorno dello status quo ante, vale a dire l’opposto della rivoluzione stessa.

In questo senso, sembra appropriato definire ciò che sta accadendo in Tunisia una  controrivoluzione, sebbene, al momento, i suoi termini non siano chiari per tutti. Ciò è dimostrato dal riemergere di pratiche proprie dello status quo ante, caratterizzate da un uso eccessivo della violenza di Stato. La risposta con mano pesante da parte della polizia nei confronti di cittadini pacifici che hanno preso parte ad una manifestazione per ricordare la morte di Belaid, è stato un altro esempio di come le vecchie abitudini siano dure a morire.

Qualcosa che in modo sconfortante riporta la memoria al passato, è anche la (ri) nascita di discorsi di natura radicale, come quando si parla grossolanamente di “minaccia islamica”. Invece di chiarire le legittime preoccupazioni sulla sicurezza nazionale – ad esempio l’emergere di gruppi armati che minacciano il potere dello Stato in materia di uso legittimo della forza fisica – che dovrebbe essere rivolta a questi gruppi, certi discorsi rischiano di confondere ulteriormente e, quindi, ostacolare gli sforzi rivolti a controllare le minacce interne. Inoltre, puntare sulla “minaccia islamica” può facilmente portare ad assumere atteggiamenti e pratiche che violano i diritti umani così come è stato nell’era di Ben Ali e le leggi anti-terrorismo del 2003. Situazione, dunque, che paradossalmente può aggravare, invece che alleviare, tensioni sociali irrisolte che ovviamente preoccupano molti tunisini.

Si ripensi agli obiettivi iniziali della rivoluzione. Un utile promemoria può essere trovato in ‘Degage’ il documentario del regista tunisino Mohamed Zran. Questo esilarante studio etnografico visivo  – che mostra come i rivoluzionari (per lo più giovani) abbiano liberato il Paese dallo stato di polizia di Ben Ali – ricorda che al centro della rivoluzione c’era una lotta per la giustizia sociale ed economica, nonché per l’apertura della sfera politica ad una significativa  partecipazione sociale.

Dietro le proteste dei rivoluzionari c’era la frustrazione dettata da problemi strutturali di lunga data. Questi includevano, le sbagliate priorità di bilancio del governo, i cui soldi venivano investiti soprattutto in strutture di sicurezza repressiva contro una quantità decrescente di investimenti in beni infrastrutturali e sociali in settori quali la sanità, l’istruzione, e nella creazione di posti di lavoro basati sul  merito invece che sul nepotismo. Inoltre a questo stato di negligenza, si aggiungevano le politiche restrittive del lavoro e una limitazione di libertà nella sfera pubblica. Cose che hanno “distorto” la distribuzione della ricchezza e ampliato il divario di sviluppo tra le zone costiere e quelle dell’entroterra.

La Tunisia è stata considerata come il “modello” delle rivoluzioni arabe, anche a causa della velocità con cui è stata “istituzionalizzata” la rivoluzione, con le elezioni, giudicate in gran parte “libere e giuste”, tenutesi nell’ottobre 2011, dove il partito moderato islamico An Nahda, in precedenza considerato fuorilegge e fortemente represso, ha avuto la maggioranza dei seggi (42%). Elezioni che hanno dato seguito alla formazione di un Governo di coalizione che ha visto  due secolari partiti di centro sinistra protagonisti. Tuttavia, al di là della lode e gloria, e anche prima della crisi attuale – che rischia di paralizzare il processo di transizione – la Tunisia post-Ben Ali stava lottando per realizzare gli obiettivi della rivoluzione, sia a livello politico che socio-economico.

Oltre alla violenza, gli ostacoli politici e socio-economici

Anche se quasi nessuno potrebbe negare che le libertà politiche sono aumentate in modo esponenziale nei due anni che hanno seguito la rivoluzione, ci sono ancora molte aree che necessitano di un miglioramento, come hanno sottolineato molte organizzazioni internazionali e locali di diritti umani. In particolare la libertà di espressione e il pluralismo politico. Ostacoli allo sviluppo e al funzionamento di un sistema politico aperto e democratico comprendono la mancanza di riforme istituzionali all’interno di ministeri chiave, soprattutto in quello della Giustizia e  degli Interni, da cui deriva la continuità di molte delle pratiche illiberali del vecchio Stato autoritario.

Dal punto di vista socio-economico, sebbene non sia stato smantellato il paradigma economico del precedente regime, il governo della “Troika” ha comunque fatto dei progressi positivi verso la risoluzione delle patologie del sistema associate all’autoritarismo neoliberista. Ciò è, ad esempio, dimostrato dalle priorità di spesa previste per il 2013 dal bilancio di Stato. La spesa pubblica è destinata ad aumentare nel prossimo anno del 4,9%, in gran parte a favore di programmi che cercano di ridurre le disparità regionali e di stimolare la creazione di posti di lavoro.

Il Governo è stato recentemente anche elogiato dal presidente dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) per la firma di un contratto sociale “simbolo” con i rappresentanti sindacali e datori di lavoro, che a suo dire spianerebbe la strada “per miglioramenti in aree quali la legislazione del lavoro e le relazioni industriali, le politiche dell’occupazione, della formazione professionale e dell’istruzione, della protezione sociale, ma anche  per uno sviluppo regionale equilibrato“.

Tuttavia, con un tasso medio di disoccupazione al 18% a livello nazionale, e la disoccupazione di quasi il doppio tra i laureati, che riflette la mancanza di posti di lavoro altamente qualificati a disposizione, e con una grande percentuale della popolazione temporanea, o di lavoro “precaria”, non sorprende che le proteste, i sit-in e il malcontento del lavoro sono diventati una realtà costante nel Paese.

È stata rivista la pianificazione strategica del partito guida del Governo An Nahda in relazione allo sviluppo della nuova costituzione del Paese. Anche se i rappresentanti del partito al potere sono stati criticati per la lentezza e l’incapacità di consultare un ampio spettro di competenze politiche e tecniche, hanno agito pragmaticamente e, come un recente articolo del New York Times ha sottolineato, “hanno circoscritto il ruolo della legge islamica facendo in modo che si evitassero argomenti legati a questioni legali, che invece in Egitto hanno portato a prolungati disordini“.

Va da sé che il Governo non è del tutto irresponsabile per  la crescente polarizzazione del contesto politico, dove è in atto un movimento di violenza. Certamente ci dovrà rispondere alle accuse fatte dalla moglie di Belaid  secondo cui il Governo le avrebbe negato protezione.

E simili accuse hanno riguardato riunioni pubbliche e manifestazioni dei partiti di opposizione che non avrebbero, appunto, ricevuto una protezione inadeguata.

Si tratta di accuse gravi che devono essere esaminate. Indipendentemente dal fatto che la colpa per questa mancanza di  sicurezza sia del ministro dell’Interno o dei suoi subalterni, il successo della transizione democratica si basa sulla creazione di un ambiente politico sicuro in cui tutte le parti sono in grado di agire in un contesto libero dalla paura.

Resistere alla fase controrivoluzionaria: la rivoluzione tunisina continua

Nel bel mezzo del conflitto in corso per definire quale sarà il tipo di formulazione politica che seguirà l’attuale crisi, si dovrebbe anche tenere conto degli elementi originali che il caso della Tunisia presenta: è il primo governo islamico, democraticamente eletto a guida di uno Stato Nord africano, il primo Governo in assoluto, per quanto ne so, ad avere otto ex prigionieri politici che ricoprono cariche ministeriali e ad aver creato un ministero per i Diritti Umani e la Giustizia di transizione.

Si dovrebbero anche prendere in considerazione i contesti internazionali e regionali, con cui il Governo di questo Paese, piccolo e relativamente povero di risorse, ha dovuto scontrarsi. Ciò include una crisi economica mondiale, le rivolte, i conflitti protratti, l’intervento straniero di chi è sopra o vicino alle loro frontiere, i tentativi dei vari Governi, le intenzioni e le motivazioni differenti dei vari organismi internazionali e non governativi  di influenzare il risultato dei processi economici e politici del post-rivoluzione. Per non parlare di tutti quegli scontenti all’interno dei confini della Tunisia che in realtà erano perfettamente soddisfatti del modo in cui andavano le cose ai tempi dell’ancien regime. Di conseguenza, non è sorprendente che, pur riconoscendovi numerosi difetti, molti hanno comunque elogiato gli sforzi del Governo.

Tuttavia, a prescindere dalle opinioni sul partito guida del Governo  – se cioé il  bicchiere sia mezzo pieno o  mezzo vuoto – la maggior parte dei tunisini è d’accordo su una cosa: che il Paese sta vivendo un momento controrivoluzionario. Anche se questo sviluppo rischia di rinviare la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione, come avvenuto a causa di altri ostacoli incontrati lungo il percorso, sembra che la società tunisina resti mobilitata e più che mai determinata a resistere ad un ritorno dello status quo ante.

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