26 Aprile 2024

Terzo settore, l’impegno della società che migliora

In un momento di crisi non solo economica ma anche di valori c’è un’Italia che procede contro corrente e mantiene ben salda la barra del timone: è il Terzo Settore, universo di soggetti privati attivi nell’area sociale che risponde alla domanda di servizi laddove lo Stato o il mercato non arrivano. Un mondo dove si muovono centinaia di migliaia di organizzazioni no profit, oltre 470 mila coinvolte nel censimento che l’Istat ha avviato nel 2012, e circa 4 milioni di volontari che a livello locale, nazionale o internazionale, continuano a fornire sostegno con modalità diverse ma finalità analoghe.

La ricerca che Unicredit Foundation e Ipsos hanno svolto nel 2012 ha quantificato il peso economico del Terzo Settore nel nostro Paese, pari a 67 miliardi di euro (4,3% del Pil). Un insieme di aggregazioni collettive vasto ed eterogeneo che rappresenta un motore di crescita e sviluppo ma che viene considerato “appunto come terzo, e quindi ruota di scorta, qualcosa che viene dopo il primo e dopo il secondo” afferma Stefano Zamagni, presidente onorario di ForumSaD, docente di economia all’Università di Bologna e presidente dell’Agenzia per il Terzo Settore le cui competenze sono state trasferite al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel giugno 2012.

Il punto è – prosegue il prof. Zamagni – che ci sono due grossi paradigmi nella scienza economica, quello dell’economia civile e quello dell’economia politica e in questo ultimo ventennio, in tutto il mondo, si assiste a una ripresa di interesse e un ritorno al paradigma dell’economia civile. Si stanno scoprendo problemi e nodi critici per sciogliere i quali il modello tipico dell’economia politica non basta. La differenza fra i due è che l’economia civile include l’economia politica ma vi aggiunge, essendo una matrice più ampia, un principio che nell’economia politica non ha spazio e cioè il principio della reciprocità che troppo spesso viene confuso con il principio dello scambio di equivalenti. L’economia civile invece parla di scambio, che ci vuole, parla di distribuzione del reddito, che ci vuole, ma parla anche di reciprocità che significa riconoscere valore al legame interpersonale. La reciprocità sottolinea l’aspetto relazionale nella vita delle persone oltre lo scambio prettamente economico, aggancia valori e sviluppo. Nel 2004, insieme a Luigino Bruni, ho scritto un libro che si intitola “Economia Civile”, è stato tradotto in sette lingue senza alcuna attività promozionale. Una ragione ci sarà.

In Italia, come in altri Paesi, l’attività delle strutture politiche o governative o in generale l’azione politica ha sempre visto il terzo settore come qualcuno che fa del bene ma che insomma non è una roba seria, l’economia è un’altra cosa. Leconomia è la finanza, l’industria, quindi tutte le volte che ci sono difficoltà e crisi al terzo settore non si dà più niente, ecco perché sono stati tagliati i fondi in una maniera indecorosa. Dentro il paradigma dell’economia civile è vero il contrario, quello che noi chiamiamo il terzo settore, che lì si chiama organizzazione della società civile, diventa uno dei tre pilastri assieme agli altri due, cioè il pilastro che tiene in equilibrio il tavolo, il tavolo con due gambe non sta in equilibrio, cade, questa è la differenza. All’interno del discorso dell’economia civile quando c’è crisi non si tagliano le risorse anzi si aumentano, mentre nell’economia politica quando c’è da fare il taglio si comincia a tagliare da lì, ai non autosufficienti, ai bambini, perché si dice che non producono.

Eppure se guardiamo al mondo del no profit vediamo cifre da record, con un aumento in termini di fatturato che si traduce in posti di lavoro, per non parlare del contributo del volontariato che è la base dello “star bene” associato ai bisogni relazionali.

La contraddizione sta nel fatto che a livello di decisione politica non si rendono queste realtà ma a livello pratico ci sono, fanno un gran bene e senza il mondo starebbe ancora peggio. Quindi se vogliamo invertire la tendenza a livello soprattutto politico bisogna accelerare il passaggio dal paradigma dell’economia politica a quello dell’economia civile altrimenti il terzo settore sarà sempre il terzo, poi magari il quarto. Ma questo passaggio è inevitabile perché oggi ci sono problemi che non possono essere risolti diversamente. Problemi del welfare, dei beni comuni, tipo acqua, territorio, cultura, il problema dei beni relazionali e così via. Quanto più le persone si renderanno conto di questo tanto più sarà velocizzato il passaggio di cui si diceva. Alla luce di questo, esempi concreti come il SaD [Sostegno a Distanza] e altri tipi di iniziative volontaristiche, ricevono un significato completamente diverso perché cessano di essere visti con sufficienza e diventano invece una componente essenziale della infrastrutturazione delle nostre società.

Cosa direbbe, quindi, al cittadino, alla gente comune?

Direi loro di non credere ai miti e alle menzogne che vengono diffuse da una certa scuola di economisti, da una certa attività portata avanti dal cosiddetto mainstream economico, che fanno credere che l’economia di mercato necessariamente debba essere uguale all’economia di tipo capitalistico. Bisogna dirlo in tutti i modi che ci sono diversi modelli di economia di mercato, c’è l’economia capitalistica di mercato, l’economia sociale di mercato e c’é l’economia civile di mercato. Questa crisi non è colpa del mercato ma del modello capitalistico di mercato che ha fatto credere che l’attività speculativa fosse all’origine della ricchezza. Poi, nel momento in cui dico alla gente che ci sono modelli diversi nasce il problema della scelta, e quando uno deve scegliere, anche politicamente, la prima cosa che deve fare è aggiornarsi, sapere, chiedersi: ma dov’è la differenza? Qualcuno glielo spiegherà, dopodiché uno sceglierà in base ai propri convincimenti, alle proprie propensioni, gli ideali religiosi… Sono sicuro che se si facesse questo lavoro di chiarimento dei tre modelli, la maggior parte dei cittadini sceglierebbe l’economia civile di mercato perché lì si sta meglio. Ora stanno meglio sono alcuni. Tutto lì, molto semplice.

In questa direzione guarda ELSAD, il Coordinamento Nazionale Enti Locali per il Sostegno a Distanza la cui presidenza dal 2008 è affidata alla Provincia di Milano. Ce ne parla Carla Bottazzi, Responsabile del Servizio Cooperazione Internazionale alla Provincia di Milano.

Il Coordinamento Nazionale ELSAD nasce per iniziativa di alcune amministrazioni locali di diverse aree del Paese, impegnate nella solidarietà internazionale, nelle politiche di pace e nella cooperazione decentrata. In Italia si stima che che il SaD coinvolga oltre un milione e mezzo di persone attraverso organizzazioni, gruppi informali, scuole e comunità. Promuovere questa pratica di solidarietà, molto diffusa, significa operare per lo sviluppo del capitale umano e sociale del proprio territorio come nei Paesi d’intervento. Si tratta di sostenere una forma di cooperazione internazionale, praticata dai cittadini attraverso il contributo stabile a progetti di sviluppo locale, diretti principalmente a tutelare i diritti dell’infanzia e a migliorare le condizioni di vita dei bambini più svantaggiati. Promuovere i diritti di tutti bambini è il principale obiettivo. ELSAD è un coordinamento, non un’associazione, non ha uno Statuto e non prevede quote associative. Si può definire come una rete aperta a Regioni, Province, Comuni e raggruppamenti di Enti. L’adesione avviene con un provvedimento formale che approva il Protocollo d’intesa del 2005. Inoltre, ELSAD collabora con ForumSAD, associazione di secondo livello delle organizzazioni SAD, per la realizzazione del Forum nazionale del Sostegno a Distanza che quest’anno si tiene a Napoli  l’1 e il2 marzo.

Ma l’Ente guarda, e vive, la questione in prospettiva, infatti:

la Provincia di Milano opera, in sinergia con le altre istituzioni locali, per rappresentare e promuovere la comunità provinciale e l’intero sistema territoriale, a livello nazionale e internazionale ma anche la cooperazione decentrata. In particolare, offre all’Ente locale l’opportunità di esercitare un ruolo internazionale importante. Pensiamo agli Obiettivi del Millennio: a due anni dalla scadenza, l’ONU sta guardando al post 2015 e ha avviato il processo per costruire una nuova agenda per lo sviluppo su una visione comune, attraverso una consultazione inclusiva, basata su di una reale partnership globale con responsabilità condivise da tutti i Paesi. Comprendere questa interdipendenza, significa riconoscere queste responsabilità e aumentare l’efficacia della cooperazione, migliorare la collaborazione e il coordinamento degli attori a tutti i livelli e, in un quadro di scarsità di risorse, significa anche trovare meccanismi di finanziamento adeguati per garantire la sostenibilità delle azioni. Infine, significa, rispettare gli impegni internazionali presi dal nostro Paese.

L’abolizione dell’Agenzia del Terzo Settore che effetti ha prodotto?

L’Agenzia ha realizzato le “Linee Guida per il sostegno a distanza di minori e giovani” a cui le diverse reti attive per il SAD hanno dato il loro contributo. Il lavoro di costruzione delle Linee Guida ha prodotto, nel 2009, la nascita dell’Osservatorio sul SAD, registro delle organizzazioni per l’adesione volontaria alle Linee Guida e un sito, legato alla campagna “Il SAD in chiaro”. Queste azioni possono davvero favorire la trasparenza, l’efficacia e l’efficienza del SAD e promuoverlo verso la cittadinanza. Di fatto, il sito non è più in funzione e le registrazioni sono ferme. Spero che il Ministero possa proseguire con lo stesso impegno e riunire tutti gli attori che avevano partecipato a quel percorso, in un lavoro comune per il miglioramento della qualità dei progetti di sostegno a distanza.

Fra le Associazioni che hanno aderito c’è SOS Italia Villaggi dei Bambini, Organizzazione internazionale, membro dell’Unesco che ha guidato la stesura delle Linee guida ONU in materia di accoglienza fuori dalla famiglia d’origine.

SOS Kinderdorf International è la più grande associazione mondiale non governativa che aiuta i bambini/ragazzi in stato di bisogno indipendentemente dalle loro origini etniche e dalla loro religione.
E’ stata fondata in Austria da Hermann Gmeiner, nel 1949, ed è oggi presente, con le proprie articolazioni in molte parti del mondo” ci spiega Emiro Fresc, direttore del Villaggio SOS di Saronno che opera dal 1993.

Quest’anno festeggiamo quindi i 20 anni di attività sul territorio di Saronno. 20 anni di vita all’interno di un Villaggio possono sembrare tanti ma in realtà sono passati in un lampo. Il Villaggio SOS di Saronno aiuta e accoglie bambini/ragazzi temporaneamente allontanati dalle proprie famiglie, con interventi educativo-assistenziali integrativi o temporaneamente sostitutivi della famiglia. Il “progetto SOS” si basa su principi tesi a garantire al bambino/ragazzo un’accoglienza che, per calore e stile educativo, personalizzazione dei rapporti, stabilità delle relazioni, dedizione, sia simile a quella di una famiglia. Tanti sono i progetti in cantiere che, in stretta collaborazione con gli operatori del Comune (Servizi Sociali), si stanno sviluppando per rispondere sempre meglio alle tante difficoltà in questo particolare momento di crisi.

Impegno e sfida di ogni giorno. Fresc aggiunge:

Non si tratta di un compito né facile, né breve perché spesso alla base delle difficoltà vi sono “blocchi” , “incompetenze”, “resistenze”. Si tratta di un lungo e puntuale lavoro sulla costruzione di relazioni personali, di piccoli gesti di accoglienza e di aiuto, con la speranza che gradualmente ma progressivamente anche i genitori della famiglia d’origine possano sperimentare la capacità di crescere adeguatamente i propri figli. Sottolineo che non è una questione di cattiva volontà da parte dei genitori ma di grosse a volte enormi difficoltà personali che non lasciano spazio all’occuparsi pienamente dei propri figli. E per poter svolgere questo delicato compito occorre che tutto il personale sia formato e supervisionato costantemente.
Non si tratta infatti di imparare delle tecniche ma di accompagnare e sostenere nelle difficoltà. E chi svolge con passione e amore questo compito sa quanto sia complicato, coinvolgente e faticoso “lavorare” con gli aspetti relazionali. Spesso significa calarsi completamente nella relazione per poter entrare empaticamente nel rapporto con “l’altro” in difficoltà, rischiando di essere “contagiati” dalle difficoltà, dalle depressioni, dallo sconforto, fino al punto di “bruciarsi” nella relazione. Ecco perché spesso si parla di “burn out” come malattia dell’operatore sociale.
Antidoto necessario oltre alla formazione e alla supervisione è anche il sostegno del gruppo. Ed in questo caso è vincente l’idea di un Villaggio composto da tante persone che condividono un ideale e si sostengono per raggiungerlo.

C’è una storia particolarmente significativa che ricorda?

Le storie da raccontare sarebbero tante. Tante andate a buon fine, alcune “disperatamente” perdute, diverse ancora in cammino.
Più che una storia mi piace raccontare attraverso i numeri anche se qualcuno potrebbe controbattere che i numeri sono freddi e non dicono nulla. Non è proprio vero perché anche i numeri se raccontati con il cuore prendono vita. Ai miei occhi essi sono volti, nomi, voci.

Il villaggio in questi 20 anni ha accolto nelle sue comunità residenziali più di 100 bambini e ragazzi. Il 60%  è tornato in famiglia. Sicuramente non in famiglie “miracolate” ma certamente più forti e competenti.
Tanti tornano al Villaggio o hanno mantenuto un rapporto con i loro educatori. Di alcuni non abbiamo più notizie e questo un po’ ci fa soffrire. Alcuni hanno creato a loro volta famiglie e ci hanno dato la soddisfazione di diventare “nonni”. Io in particolare sono, o meglio mi considero, il “nonno” di 5 nipoti SOS. E vi garantisco che non è poca cosa.

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