10 Novembre 2024

Citizen journalism, libertà di stampa e nuova informazione

Emma Cavarocchi (4^T), Giovanni Gandoldi (5^F)

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Ecco quello che compare sulla schermata del computer quando su un qualunque dizionario on-line si cerca la definizione di citizen journalism. Un termine a molti ancora sconosciuto. Ma che incarna un’attività ormai praticata da moltissimi.

L’espressione inglese indica un giornalismo che si discosta dalle redazioni televisive, dalle riviste o dai quotidiani mainstream.

Nella nuova era dell’informazione ognuno di noi può essere importante per registrare e trasmettere notizie e fatti. E il citizen journalism è un giornalismo dei singoli cittadini, di chi ha voglia, bisogno o semplice desiderio di comunicare con il mondo. Ed è svolto soprattutto in Rete. Ognuno di noi – in un certo senso – può essere un citizen journalist. Basta avere una modesta esperienza di Internet, essere presenti nel posto giusto al momento giusto e documentare. Così facendo scrittura e curiosità non sono più solo passioni, ma diventano parte integrante di servizio e impegno sociale.

Ma ci rendiamo conto di quanto veramente valga l’attività del citizen journalist sul piano della nostra informazione, della nostra coscienza politica e sociale in quanto cittadini del mondo? Quanto possiamo avere bisogno di questa nuova figura, nonostante i media regolamentati da legislazioni e albi professionali?

Libertà di stampa e condizionamento

Se molti sono critici sulla figura del citizen journalist è perché non gli riconoscono un ruolo ufficiale che invece viene riconosciuto a un giornalista che lavora per testate regolamentate da Statuti e Contratti. Testate che però negli ultimi anni non sembrano dare al lettore la fiducia di un tempo. In ogni caso, è ancora forte il principio della veridicità delle notizie che passano su giornali, tv, radio mainstream. Eppure spesso è stato sottolineato (e anche dimostrato) il possibile condizionamento da parte di Stati, autorità, lobby economiche e finanziarie su cosa diffondere e come farlo. In molti Paesi non vi è libertà di stampa e tutto può essere sottoposto a censura, sia su carta sia, oggi, su Rete. Queste restrizioni sono in atto nonostante molti regimi dittatoriali del passato siano crollati e istituzioni democratiche siano alla guida della scena politica.

Eritrea, Corea del Nord e Turkmenistan occupano gli ultimi posti della classifica redatta da Reporters without borders sulla libertà di stampa nel mondo. Anche in Europa la situazione non è però del tutto omogenea: il buon esempio dei Paesi scandinavi, da anni ai primi posti, non è seguito da Stati come Grecia e Bulgaria. Qui, nell’ottobre 2011, il giornalista Sasho Dikov è rimasto vittima di un attentato: una bomba ha fatto esplodere l’auto eliminando un personaggio scomodo per il Governo. Sembra che anche la crisi economica che ha colpito il Peloponneso negli ultimi anni abbia avuto un’influenza sulla censura e l’opposizione alla libertà di stampa. Nei mesi scorsi, per esempio, sono state diffuse immagini e notizie sulle vicende di Kostas Vaxevanis e Spiros Karatzaferis, giornalisti greci condannati rispettivamente per avere reso pubblica una lista degli evasori fiscali con conti in banche estere e per aver affermato di possedere documenti segreti sui negoziati tra il Governo di Atene e l’UE. Questi sono solo i casi più eclatanti di un sistema d’informazione che a volte dà l’impressione di colare a picco.

Un rapido sguardo all’Italia

L’articolo 21 della Costituzione Italiana tutela la libertà di stampa nel nostro Paese. Secondo le ricerche di Freedom House, i media tradizionali sono considerati “partly free”. Ciò significa che godono di un buon grado d’indipendenza, non essendo però del tutto autonomi.

Negli anni ‘70-‘80 del secolo scorso, si sono verificati anche in Italia casi di censura e condizionamento. E di giornalisti uccisi in circostanze “misteriose” perché avevano rivelato di essere in possesso di notizie scottanti che coinvolgevano il mondo politico ed economico. In occasione della “legge Gasparri” proposta negli anni 2003 e 2004 dall’omonimo esponente dell’allora AN, si tornò a parlare di “opposizione alla libertà di stampa”. In questo documento veniva proposta una riforma del sistema radiotelevisivo italiano, andando in particolare a limitare programmi e risorse economiche e a un rafforzamento della figura dell’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi che pure già dominava con le sue Reti Mediaset.

Subito si scatenò una forte protesta. Reporters sans Frontières inviò un appello al Presidente della Repubblica, Ciampi per chiedere il blocco alla legge, affermando che rappresentava “un pericolo per l’autonomia della televisione pubblica e una minaccia per il pluralismo dell’informazione”. L’iter del Ddl fu fermato dalla Commissione Europea, che invitò il Parlamento italiano a rivedere i principi cardine della normativa, che fu modificata, ma mai completamente digerita da chi sosteneva fosse una legge iniqua.

Negli ultimi anni, la situazione nel panorama informativo è cambiata grazie all’affermarsi di un nuovo tipo di giornalismo, aperto e democratico. Una prova sta anche in questo: spesso accade che nei servizi dei Tg nazionali e nelle pagine dei quotidiani mainstream vengono utilizzati video e immagini “non ufficiali”, filmati inviati da “testimoni oculari” di un evento o scaricati da You Tube. È il segno di una nuova collaborazione e di uno scambio aperto e funzionale? O di semplice necessità?

In un’intervista, Angelo Cimarosti, cofondatore di YouReporter, ha affermato che in Italia “il citizen journalism è diventato maggiorenne”, dimostrandosi “in grado si generare un flusso di notizie autorevoli e molto visibili”.

Denuncia e collaborazione

I citizen journalists si occupano spesso di denunciare il mancato rispetto dei diritti umani e di sostenere le cause dei più deboli ed esposti. Talvolta la semplice azione scritta si trasforma in un mezzo di sostegno e cooperazione, nonostante sia quasi sempre necessario l’appoggio di un sistema legale e affermato.

Vogliamo citare qui l’attività del giovane reporter Harry Fear che, nel suo blog, mantiene saldo il filo che lega Gaza con il resto del mondo. Così come aveva fatto Vittorio Arrigoni con il suo Guerrilla Radio. E che per tanto tempo, finché non è stato ucciso, ha testimoniato quanto avveniva nella Striscia di Gaza quando nessun giornalista mainstream era presente o poteva entrare.

Quando l’attività giornalistica è mirata alla denuncia, il fine principale è quello di informare e rendere cosciente il lettore di una società che continua a permettere soprusi e prevaricazioni. E i mezzi per farlo non sono legati solo alla scrittura, ma ci si può avvalere di molti altri strumenti visivi e di geolocalizzazione. Strumenti che aiutano a rendere più chiare e dettagliate le informazioni.

È quello che offre, per citarne uno, il crowdmap patrocinato da Ushahidi, piattaforma open-source utilizzata per raccogliere – anche attraverso semplici SMS – testimonianze e notizie di interesse collettivo o di violazioni di diritti umani.  Citiamo, come esempio, Bijoya, creato per dare la possibilità di denunciare atti di violenza contro le donne in Bangladesh. Un’iniziativa importante anche se nel blog, viene chiarito che non basta segnalare e riportare quanto avviene. Certo è importante fare luce sui crimini ma bisogna spingere affinché arrivino provvedimenti concreti da parte delle autorità competenti.

Ciò non significa che l’azione dei cittadini e dei citizen journalists sia meno rilevante. “Ora ci sono molti più occhi e orecchie sugli avvenimenti” scrive la freelance Jane Sasseen nel suo ultimo reportage The video revolution. E, facendo riferimento ai video-maker e fotografi, “i citizen videographers sono diventati i giocatori chiave nel creare un giornalismo di responsabilità, facendo luce su abusi governativi e militari nei Paesi dove i media sono sotto il controllo di Stato, ente privato o interessi politici. […] Hanno acquisito il ruolo dei cani da guardia che i media abituali hanno tradizionalmente rivestito nei Paesi con libertà di stampa”.

Comunicazione: quali sono i mezzi?

Il cartaceo e i mainstream, dicevamo, non sono più i mezzi migliori (o più seguiti) per creare un collegamento diretto tra scrittore e lettore. Oggi, la risorsa è Internet. Negli ultimi anni il numero dei blog è cresciuto in maniera esponenziale: il 29% dei bloggers mondiali sono europei, il 57% del totale tra i 25 e i 44 anni. Chi naviga viene bersagliato da una quantità inimmaginabile di notizie, la cui fruizione risulta facile e immediata. La Rete è uno spazio poliglotta e condiviso: proprio per questo riesce a superare senza troppe difficoltà le barriere socio-linguistiche che separano Paesi e continenti. Sempre nel caso di YouReporter, non si ha a che fare solo con una web tv – dicono i suoi creatori – ma con una piattaforma che “gerarchizza le risorse in modo automatico considerando le preferenze e i tag, dando inoltre la possibilità all’utente di auto-categorizzare il suo contenuto e considerando la provenienza geografica del contributo, in modo da trattenere il legame con il territorio” [intervista ad Angelo Cimarosti già citata].

L’unica remora: non sempre la veridicità delle notizie è certificata. Su questo aspetto, riportiamo il punto di vista di Paolo Morelli, giornalista e scrittore. Nel suo blog Homo monitor, ribadisce quanto sia “necessario imporre una rigida selezione di ciò che passa in Rete”, valutando le informazioni opportune e utilizzabili in base a criteri qualitativi. Questa l’opinione di un giornalista mainstream prima che blogger. Tale lavoro di valutazione e scarto non può che spettare al lettore stesso. Perché dietro alla pubblicazione degli articoli, si dovrebbe riscontrare un’attenta analisi delle fonti e dei contenuti, in modo da certificare una certa obiettività e garanzia.

Insomma, la Rete rappresenta ancora, per molti versi, una sorta di terra inesplorata e dalle mille possibilità: tutto sta nel comprenderne i limiti, valorizzarne le potenzialità e sfruttarla con consapevolezza.

Dopo questa breve analisi abbiamo un quadro più chiaro di chi è un citizen journalist? Sicuramente sappiamo che con Internet e i social media abbiamo maggiore capacità e possibilità di informarci e informare. Ma questi mezzi e il come si fa, bisogna imparare a conoscerli.

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