Questo post è stato scritto da David Serra, antropologo interessato allo studio delle relazioni che intercorrono tra conflitti armati interni, economie di morte transnazionali e comunità indigene in territorio colombiano, peruviano e sudamericano in generale. Attualmente vive in Apurimac (Perù) collaborando con APRODEH (Asociacion Pro Derechos Humanos)
L’attuale conflitto interno colombiano è solamente l’ultima variante postmoderna di una storia di violenza che da secoli accompagna questo tormentato e splendido Paese. Il motivo scatenante è sempre orbitato attorno alla gestione della terra e allo sfruttamento delle sue risorse. Questo sistema di sfruttamento affonda le sue radici nel periodo coloniale che ha gettato le basi di un modello che, pur essendo profondamente cambiato, nella sua essenza rimane pressoché immutato, continuando a far sgorgare sangue, in un territorio che già da secoli ne è saturo. Quest’archetipo è incarnato alla perfezione dal mito dell’eldorado, un’utopia che narra d’immaginifiche città dorate e che promette, a coloro che sanno osare, facili ed enormi ricchezze; ricchezze però destinate a varcare i confini del Paese dando il via a un’economia globale che getterà le basi del sistema economico capitalista.
Oggi dell’oro sono rimaste le sole briciole e anche della popolazione natia, massacrata e schiavizzata dai colonizzatori, rimane ben poco. Quello che resta è il sogno di un guadagno facile, incarnato dal nuovo eldorado della cocaina che, tramite un gioco di specchi e riflessi, unisce gli antichi colonizzatori spagnoli con i nuovi narcos colombiani e il metodo per raggiungerlo, nella sua sostanza è rimasto pressochè invariato e consiste nell’appropriarsi del territorio e delle sue risorse. Ne deriva un’economia di morte transnazionale che fornisce un prodotto globale ai mercati del primo mondo e che continua a mietere un numero impressionante di vittime a livello locale.
La tensione, la violenza, le minacce sono alcuni dei motivi che conducono la popolazione a intraprendere questo lungo cammino fino al Paraisio, uno dei più poveri quartieri di Ciudad Bolivar che, ironicamente, veglia dall’alto della cordigliera orientale sulla sterminata distesa di lamiere che delimita la zona meridionale di Bogotà. Un esodo sconcertante che durante gli ultimi vent’anni ha condotto milioni di persone verso i grandi centri urbani del Paese.
Dal centro di Bogotà, per giungere fino al Paraisio, uno delle zone piu povere della ruggente capitale colombiana, bisogna prendere il Transmilenio, un sistema di trasporto su quattro ruote a scorrimento veloce, fino all’autostazione Tunal. Durante l’ora abbondante di viaggio che separa la Candelaria, l’affascinante centro storico coloniale di Bogotà, dal capolinea Tunal si osserva lentamente il progressivo deterioramento degli edifici finché non si giunge in una zona non edificata dove sembra finire la città. A questo punto, quasi giunti all’autostazione, si inizia ad intravedere una sterminata distesa di baracche che si inerpica per i rilievi dell’altopiano andino fino a dissolversi lungo la linea dell’orizzonte. Una volta arrivati all’autostazione Tunal bisogna prendere un autobus gratuito, chiamato alimentador, che connette questi sterminati quartieri d’invasione con la capitale. Qui termina il cemento e inizia un’altra Bogotà fatta di lamiere, di scarti e di miseria. Anche se Ciudad Bolivar è considerata parte integrante della città è difficile paragonarla ai lussuosi quartieri residenziali della zona Nord protetti da cinte difensive e sorvegliati da uomini armati.
Chi scappa da una vita di paura e tensione giunge in città dopo aver abbandonato la maggior parte dei propri averi, ma comunque accompagnato dalla speranza di poter finalmente iniziare, con l’aiuto dello Stato, una nuova vita al sicuro dalla violenza con la quale, per anni, hanno dovuto forzatamente convivere nelle loro zone d’origine. Ben presto però ci si accorge che la speranza in realtà era vacua illusione, che Bogotà già ospita un numero impressionante e precisamente incalcolabile di sfollati, che lo Stato non riesce a garantire nemmeno una minima parte degli aiuti che promette e che trovare lavoro non è un’impresa facile in un luogo dove il desplazado è visto con pregiudizio, come un criminale, una persona pericolosa con la quale è meglio non avere a che fare. In questa situazione la speranza lascia ben presto spazio alla rassegnazione, la miseria diventa abitudine e le prospettive di un futuro migliore si assopiscono nel quotidiano tentativo di sopravvivere. Quello che rimane è la rabbia, l’angoscia e la tristezza per il futuro al quale sembrano irrimediabilmente destinate anche le future generazioni condannate a crescere in questi sterminati cinturoni della miseria che avvolgono la capitale, come tante altre città della Colombia.
Parafrasando le parole di Carlos, un ragazzo costretto ad abbandonare la propria terra in seguito alle minacce ricevute da un gruppo armato illegale, si constata che Bogotà sta esplodendo o forse è già esplosa. I grandi centri urbani già da anni non possono più ricevere l’incessante flusso di sfollati che quotidianamente si riversa nelle periferie. In questo contesto lo sviluppo urbanistico delle città è completamente fuori controllo e già da diverso tempo si è superato il punto di non ritorno. A Bogotà addirittura le fogne diventano un’alternativa di vita e un cospicuo numero di persone sceglie quest’opzione per ripararsi dal freddo e dagli squadroni della morte. L’inefficienza dei programmi di assistenza e di aiuto promossi dal Governo, unita alla diffusa indifferenza dei cittadini delle grandi città, condanna alla miseria milioni di persone. In questo modo la disuguaglianza sociale cresce vertiginosamente e i grandi centri urbani esplodono contribuendo a plasmare la trama di un dramma il cui epilogo è ancora incompiuto ma che si spera possa giungere, in un futuro prossimo, a quella tanto agognata pace che da secoli questo tormentato Paese attende.