Uganda, forza militare e finta democrazia

Dopo quindici giorni dalla prima puntata in Uganda, ci ritorno per qualche giorno e per arrivare, venendo dal Nord, fino a Kampala, la capitale.
La traversata in auto mi lascia vedere i villaggi piccoli e grandi che attraversiamo; la gente che coltiva questo ben di Dio di terreno fertilissimo; i tucul, che qui hanno i “capelli lunghi” (l’erba che viene messa secca sui tetti è molto più lunga che non nel Sud Sudan) e vengono tagliati davanti alla porta d’ingresso, così da sembrare un “caschetto”; le colline che si susseguono all’infinito in panorami apertissimi.
La strada è brutta dal confine fino a Gulu, la prima città che si incontra, con un grande mercato, case anche di due e tre piani, banche, scuole, due grandi centri comboniani, uno di istruzione e formazione, l’altro di lavoro artigianale per persone in difficoltà fisica, famigliare, psichica e quant’altro.
Da Gulu la strada è asfaltata, piena di buche per i primi 100 km., fino a Mahindi, poi bella e segnalata!

Una foto in un momento di pausa dal lungo viaggio - Foto di Paolo Merlo

Kampala è la classica città capitale, ma con palazzi modernissimi accanto a capanne e zone poverissime, in via di crescita come lo era l’Italia degli anni ’60. Ci sono anche i primi bus arancioni, di produzione cinese, sempre pieni, che andranno a sostituire pian piano i matato (i pulmini da 12/15 posti) che corrono a porte aperte per fare prima. Non so quando, ma penso che prima o poi spariranno anche i boda-boda (mototaxi) che viaggiano sfrecciando tra le auto come gli scooter di Roma, ma sono inquinanti, di bassa cilindrata e portano solitamente almeno due persone oltre al pilota…

Ci sono grandi chiese di varie religioni e un tempio induista molto bello. Dalle diverse colline che compongono la città si godono panorami tutto sommato anche abbastanza chiari, per quanto riguarda l’inquinamento, rispetto almeno a Yaounde (Camerun), Juba (Sud Sudan) e Ouagadougou (Burkina Faso).

La situazione politica è “normalmente africana”: il presidente, Yoveri Museveni, ha ormai circa 75 anni e guida il paese da 26 anni. C’è abbastanza lavoro, la gente è molto attiva, e l’istruzione è di ottimo livello. Pare che anche l’assistenza sia buona, grazie anche ai medici prevalentemente europei che lavorano nei vari ospedali fondati dai missionari, soprattutto comboniani.

L’Uganda però sta crescendo molto da un punto di vista militare. E’ ben attrezzata e c’è in corso una campagna per aumentare le forze armate: obbiettivo primario, a detta del Governo, di essere una “forza di pace” per l’Africa. In effetti i militari ugandesi ora sono in Somalia, schierati in aiuto del nuovo Governo, sono in Sud Sudan, schierati con Salva Kiir contro il Sudan, sono in Congo, a cercare di sconfiggere i ribelli attuali; a dire la verità hanno anche catturato, proprio pochi giorni fa, il braccio destro di Joseph Kony, il capo ribelle ugandese che ha fatto rapire centinaia di bambini per usarli come soldati. Si dice e si nega che Kony, a suo tempo, abbia aiutato Museveni, ma ora non c’è più rapporto pacifico, probabilmente per via di promesse non mantenute. Queste promesse, in quest’area, sono un classico. Nel Sud Sudan, al Nord, negli Stati di confine ci sono piccoli eserciti ribelli che, non avendo visto mantenute le promesse del Sud dopo la secessione, stanno interferendo e creando focolai di guerra contro Omar-el-Bashir che si ripercuotono sui rapporti tra i due Paesi ora indipendenti.

La gente parla volentieri, anche di politica, della situazione economica, che qui è piuttosto buona, del lavoro che c’è e del futuro.
Su questo argomento devo dire che ho trovato delle sorprese. La gente è piuttosto contenta del suo status, ma non della conduzione del Paese. Sono forse stanchi di sentirsi chiamare alle armi e vorrebbero lavorare in pace. Questo malcontento sta covando come la brace sotto la cenere: prima o poi si innescherà la miccia che farà cambiare il capo dello Stato, sostituendolo con un nuovo dittatore democratico, che dopo aver fatto tante promesse, non ne manterrà nemmeno una. Solo previsioni.

Quando parlo di “dittatura democratica” riguardo i Paesi africani, penso proprio ad una democrazia che si gestisce in maniera diversa dalle nostre. Qui, come in molti altri Paesi, il presidente arriva al potere con un colpo di Stato, dopo una trentina di anni di comando del suo predecessore. Il presidente indice, ogni cinque o sei anni, elezioni che vengono fatte passare per democratiche, soprattutto ai Paesi occidentali, per non perdere il diritto agli aiuti, ma in cui sono candidati solo fidi amici e parenti del presidente, che vince sempre. Ad un certo punto il popolo si stufa, i militari, malpagati, magari si stufano anche loro e cambiano il presidente: se ne riparlerà poi… fra una trentina di anni! Salvo non succeda come in Mali, che dopo la prima rivoluzione se ne è scatenata una seconda e così … non è cambiato nulla o quasi!

Per finire il discorso specifico dell’Uganda, Museveni sta pensando di cambiare la Costituzione, per poter essere rieletto per la quinta o sesta volta. La gente non gradisce e promette di difendersi da questa minaccia.
Staremo a vedere.

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