Il futuro del giornalismo

[Nota: Traduzione di Giorgio Guzzetta e Gaia Resta dall’articolo originale di Angela Phillips apparso su openDemocracy]

Questo articolo è stato presentato alla Goldsmiths Leverhulme Media Centre Conference il 3 Aprile 2011. Angela Phillips descrive la situazione dei media oggi, sottolineando come le innovazioni introdotte dai giornalisti siano contrastate e ostacolate da modelli di business ormai superati. Molti miti vengono perciò sfatati, come quello che il giornalismo possa essere gratuito, che i contenuti prodotti dagli utenti riducano i costi, che il video è il futuro del giornalismo, ecc. Il futuro, invece, si gioca tra due possibili alternative: o un giornalismo che dipenda sempre di più dall’uso che le grandi multinazionali fanno dei nostri dati personali oppure dalla possibilità di un sistema di pagamento online che ci permetta di pagare per i contenuti che ci interessano.

Il lavoro del giornalista non è in crisi. Se possibile, è molto più entusiasmante di quanto non sia mai stato.

  • La stampa giornalistica oggi può essere altrettanto veloce del giornalismo televisivo e radiofonico.
  • La connessione Internet e strumenti leggeri e portatili ci consentono di produrre video e fare foto senza bisogno di allontanarci dal luogo in cui i fatti accadono.
  • L’accesso ai dati ci permette di monitorare l’operato dei Governi e di trasformare le informazioni in immagini visive che tutti possono facilmente comprendere, usando applicazioni facilmente reperibili.
  • Internet fa sì che gli attivisti in Tunisia, Egitto, Libia e Siria abbiano i mezzi per raccontare le loro storie direttamente, invece di dover aspettare che i giornalisti occidentali vengano spediti laggiù.

Ovviamente ci sono anche aspetti negativi.

L’entusiasmo per i nuovi modi di osservare ciò che avviene nel mondo può sconvolgere i meccanismi di gestione e controllo delle notizie. La possibilità di accedere a informazioni riservate, come abbiamo visto, solleva la questione della privacy. Esplorare il mondo restando seduti alla propria scrivania è attraente, ma troppo spesso le esigenze di tagli nel bilancio fa sì che il web sia in realtà una scusa per incatenare i giornalisti alle scrivanie, limitando il loro lavoro al copia e incolla da fonti online e rendendo più difficile e più raro il dialogo reale con le fonti e i contatti.

Per i giornalisti è sempre più difficile giudicare la qualità della informazioni, vista la quantità eccessiva (e crescente) di dati che ricevono. Una recente ricerca (Fenton, 2010, pp. 153-) ha evidenziato che i giornalisti tendono sempre di più a dipendere da fonti affidabili e già sperimentate, piuttosto che cercare notizie fresche e nuove fonti. E hanno anche cominciato a capire che poter consultare il lavoro di attivisti e citizen journalists (e del pubblico in genere) crea problemi oltre che vantaggi. Verificare l’attendibilità è molto difficile. Neanche un mese fa, il Guardian ha ricevuto una serie (circa 3,000)  di email tra il presidente siriano Assad e la moglie. Per garantirne l’attendibilità, è stato applicato un procedimento di verifica molto articolato, indice del livello di complessità che la verifica di notizie arrivate da fonti sconosciute e anonime richiede.

L’accesso a una simile quantità di notizie è molto utile, ma c’è il rischio che fatti importanti rimangono sepolti nella massa. I problemi di accessibilità e di analisi delle informazioni necessitano che venga creato un settore interamente nuovo di giornalismo che si occupi di gestione dei dati.

L’open journalism è un miraggio: quanto più aperta diventa un’organizzazione giornalistica, tanti più giornalisti devono occuparsi di filtrare e verificare le notizie che arrivano. Come dice un giornalista, “è come cercare di afferrare un filo d’erba in un tornado.”  (Angela Phillips, Old Sources: New Bottles, in Natalie Fenton, New Media, Old News: Journalism and Democracy in the Digital Agre, Sage  2010:94).

Tuttavia, alcuni di questi problemi si risolveranno con il tempo. Scopriremo come convivere con tecnologie sempre più invadenti e invasive. I giornalisti stanno già mettendo a punto strumenti per verificare i dati e le notizie, e i social media inseriscono questi nuovi standard nella quotidianità del lavoro giornalistico. I giornalisti più giovani stanno già imparando a impostare il loro lavoro in modo nuovo, acquisendo le capacità tecniche che gli permettono di girare video e scattare foto e di collaborare a stretto contatto con grafici e video-maker in modo da presentare le notizie in maniera più attraente. Modalità collaborative di giornalismo investigativo già esistono, come per esempio Reality Check.

Il problema non è il giornalismo in quanto tale. Il problema è il modello di business che non riesce a sostenerlo. Il giornalismo è in crisi perché nono riesce più a finanziarsi. La fonte principale di guadagno negli ultimi 150 anni sta scomparendo. Come dice Michael Porter, “l’essenza di ogni strategia è decidere cosa non fare.” (1996, p.20)

Richard Tofel, nel suo libro Why American Newspapers Gave Away the Future suggerisce che gli amministratori editoriali non si sono fatti consigliare dalle persone giuste e hanno scelto la strada sbagliata. Per i direttori di giornali, prigionieri dei tecnici, e, soprattutto nel caso dei giornali locali, disposti a tutto pur di non perdere le loro fonti di guadagno, era molto facile fare le scelte sbagliate.

Negli anni fino al 2000-2001, i ricavi pubblicitari erano altissimi e non c’erano segnali di crisi in vista. Nel giro di pochi anni, la situazione è cambiata radicalmente e i proprietari dei giornali hanno cominciato a preoccuparsi a causa del crescente uso del web da parte del pubblico in cerca di notizie. Si sono lanciati su prodotti online credendo (sulla base del modello di business esistente) che la pubblicità li avrebbe seguiti e che l’abbassamento dei costi di produzione e distribuzione online avrebbe compensato la perdita delle vendite dei giornali a stampa.

Quello che non avevano considerato è il fatto che il mercato pubblicitario online avrebbe trovato altre forme e i siti giornalistici sarebbero rimasti a secco. Per non parlare del fatto che la crisi del 2008 ha ridotto drasticamente la quantità di soldi spesi per le inserzioni pubblicitarie.

Il dilemma della pubblicità

In genere si calcola che la pubblicità online frutta circa il dieci per cento rispetto a quella su carta. Per cui sono necessarie molte più pubblicità per poter finanziare la stessa produzione giornalistica – ma la richiesta di notizie cresce e lo spazio per la pubblicità è limitato. Secondo un recente studio del PEW Research Centre, in America il mercato delle notizie si sta spostando verso gli smartphone dove il guadagno della pubblicità è ancora minore (circa l’uno per cento rispetto alla stampa).

Pubblicando liberamente online i contenuti del giornale, le organizzazioni giornalistiche hanno svalutato il loro lavoro e il loro prodotto, creando l’illusione che le notizie potessero essere fornite gratuitamente al pubblico. In questo modo hanno finito con il creare la situazione problematica che adesso rischia di distruggere il giornalismo.

L’anno scorso il deficit del Guardian è stato di 33 milioni di sterline e il direttore responsabile, Andrew Millar, ha lanciato l’allarme, dichiarando che la società potrebbe non aver più soldi liquidi nel giro di 3-5 anni. Malgrado abbiano quasi 3 milioni di utenti online, c’è ancora bisogno dell’edizione cartacea (meno di 300,000 lettori al giorno), di 890 impiegati che non lavorano come giornalisti e altre DIECI fonti di reddito, per poter pagare i 630 giornalisti che di fatto producono i contenuti del giornale, garantendo quello che dovrebbe essere il prodotto principale dell’azienda.

Il giornalismo non può essere gratuito

Fare del buon giornalismo è un mestiere difficile e deve essere pagato. Il problema non è se pagarlo oppure no, ma come pagarlo.

Gli amministratori dei giornali non vogliono fare da capro espiatorio. Secondo John Paton, direttore generale di Medianews Group, il problema è la cultura espressa dai giornali. A suo avviso il cambiamento più grande che i giornali tradizionali devono fare è quello di “trasferire il centro dell’attenzione sul digitale“. Frederic Filloux, del consorzio French ePresse, fa un’analisi molte precisa sui responsabili delle difficoltà in cui si trovano i giornali : “uno staff che invecchia, ingabbiato da contratti antiquati negoziati dai sindacati, non aiuta la flessibilità del lavoro. Lo stesso vale per la formazione, per la suddivisione del lavoro, ecc.”

Ashley Highfield, attuale amministratore di Johnston’s Press, uno dei principali gruppi editoriali britannici, la pensa allo stesso modo. In una recente intervista ha dichiarato che, anche se la circolazione di giornali stampati è calata solo del 2 per cento (e i giornali più piccoli ottengono i profitti più alti), è comunque necessario e urgente passare al digitale.

Ma quali sono le prove di quest’inerzia nei confronti del digitale?

Richard Tofel descrive una realtà molto diversa. Secondo lui esiste “una cultura giornalistica innovativa accanto a una cultura manageriale attendista e attaccata allo status quo.” Tofel, a mio avviso giustamente, descrive una situazione in cui la mentalità dei giornalisti è molto più avanzata di quella degli amministratori.

I giornalisti hanno sperimentato opportunamente nuovi modi di reperire e diffondere materiali utili, diffondendo notizie su temi eticamente sensibili, muovendosi al limite della legalità (le spese sostenute dai parlamentari, Wikileaks, lo scandalo di Liam Fox e del tabloid di Murdoch “News of the World”, ecc.) In questi casi hanno sfruttato le opportunità offerte dai nuovi media per fare del giornalismo migliore. D’altra parte i loro manager immaginavano un po’ troppo spesso un mondo in cui i nuovi media fossero in grado di far crescere i profitti. Parlavano di scalabilità, centralizzazione e acquisizione di competenze multiple.

In alcune redazioni, ai giornalisti veniva semplicemente detto che da quel momento in poi avrebbero dovuto realizzare dei video, spesso senza neanche avere una formazione in tal senso. Chi si dimostrava riluttante o metteva in dubbio il senso di una tale decisione, veniva bollato come “luddista” e infine licenziato non appena si verificava un esubero di personale. Naturalmente, spesso si trattava di persone di una certa età con stipendi piuttosto alti, poi sostituiti da impiegati più giovani che probabilmente non si sarebbero lamentati più di tanto degli straordinari e delle poche occasioni di occuparsi di storie vere.

In un mondo ideale sarebbe bello poter disporre di uno strumento multimediale e avere un video incorporato in ogni articolo che lo richieda. Tuttavia, non c’è alcuna prova che i video facciano crescere i profitti o rendano il giornalismo più sostenibile. Al contrario, le prove puntano in tutt’altra direzione.

L’esempio migliore di un giornale multimediale è stato il Manchester Evening News in collaborazione con Channel M. Quando il Guardian ha venduto il giornale, il canale TV è stato chiuso a causa del costo elevato della realizzazione dei video. Il web non produce abbastanza per sostenere la carta stampata (che invece costa poco): come avrebbe potuto finanziare i video, che invece costano almeno dieci volte di più?

Ciononostante, il Governo ha deciso di investire 120 milioni di sterline per la creazione di una TV locale in collaborazione con enti giornalistici locali, prendendo una buona fetta di denaro dalla  BBC (e quindi dai contribuenti) e l’ha buttato via così. In questo modo ha ridotto il finanziamento alla più utilizzata e fidata fonte di notizie che abbiamo e lo ha dato a persone che hanno già dimostrato di non saper trovare una soluzione al declino del loro settore.

Tecnologia e dilettanti non pagati

Alcuni impresari sono convinti che la tecnologia e i consumatori proattivi contribuiranno a ridurre notevolmente i costi. Incoraggiare la gente a partecipare alla raccolta delle notizie può essere  auspicabile, ma non economico. I giornalisti coinvolti devono comunque effettuare un lavoro di verifica, che siano o meno gli autori del contenuto. Devono confezionare il tutto, renderlo accessibile e disponibile su varie piattaforme. Per essere fatto bene, questo lavoro richiede un numero maggiore e non minore di competenze.

Certo, si possono riempire gli spazi tra una pubblicità e l’altra con chiacchiere spensierate e con l’elenco degli spettacoli, ma per esporre bene le notizie è necessario il lavoro di giornalisti che coprano regolarmente il territorio, abbiano una buona conoscenza pregressa e pongano domande pungenti.

Bisogna tenere conto del lavoro da operare sul materiale in entrata. Ohmynews, il primo e il migliore esempio di un sito di notizie fondato esclusivamente sul crowdsourcing, è naufragato proprio perché non potevano più permettersi i costi legati all’editing.

Il lato negativo della scalabilità

Un possibile futuro è dato da un sistema scalare: la speranza è che ampliando sempre di più il pubblico di lettori, le briciole guadagnate con le pubblicità comincino a formare un gruzzolo. Il Guardian e il Daily Mail hanno lanciato le rispettive edizioni statunitensi nel tentativo di aumentare il numero di lettori e gli introiti pubblicitari che ne conseguono. I media hanno sempre contato sulle spese elevate che comportava l’avvio di un giornale come deterrente per la concorrenza. Qualcosa di preoccupante sta per accadere sotto i nostri occhi: la nascita di una specie di barriera a protezione delle società più grandi. Se l’unico modo per avere successo online è essere gargantueschi e raccogliere innumerevoli piccole somme di denaro (come fanno Google e Facebook), come si traduce questo nel giornalismo?

Il modo migliore di muoversi nel mondo del digitale è ingrandirsi al punto da poter monopolizzare il settore? I consumatori riescono a interagire davvero con un giornale che conta milioni di lettori? Le persone continueranno a leggere giornali locali (che fungono da spazi pubblicitari per prodotti che non sono neanche locali), perché vendere spazi pubblicitari sul web richiede troppo tempo? Se i giornali riescono ad affermarsi, a quel punto non saranno forse troppo potenti per essere davvero democratici?

Questo è un problema essenziale per le start-up. In futuro ci sarà ben poco spazio per una reale innovazione dei contenuti, se tutte le pubblicazioni dipendono dalla pubblicità e se gli inserzionisti pagano solo per un sito con milioni di visitatori al giorno. I siti web di nicchia sulle celebrità, la tecnologia e lo sport potranno anche sopravvivere, ma che dire delle pubblicazioni femministe o politiche che in passato vivevano solo vendendo i loro contenuti? In questo nuovo mondo di innovatori liberi e sinceri, la lotta per guadagnare un po’ di denaro e apportare innovazioni non trae nessun beneficio da uno stomaco vuoto.

Vendere le nostre anime al capitale

Di recente Ashley Highfield ha annunciato che gli annunci pubblicitari su web erano disponibili su Johnston Press. Al momento sono la fonte del 20% delle entrate. È una percentuale molto alta per una nuova attività, ma comunque Highfield è ben lontano dal poter fare a meno del cartaceo, da cui proviene il restante 80%. (Roberts 2012)

Per Highfield la soluzione al problema è una RAPIDA  conversione al digitale e la presenza di annunci “mirati”. Per me e per voi questo si traduce nella vendita di una maggiore quantità di dati personali. Poiché il corollario della scalabilità e della pubblicità online è la vendita dei dati, i miei e i vostri. La pubblicità intelligente (la tipologia che Ashley Highfield vuole utilizzare) consiste nell’indurci a rivelare informazioni personali grazie alle quali possono persuaderci a comprare roba di cui non sapevamo di aver bisogno. Vendere i nostri dati, le nostre vite private, il cuore della nostra identità, è davvero meglio che pagare in contanti per le cose di cui necessitiamo?

Questa è la domanda che dobbiamo porci nel momento in cui Google annuncia (è accaduto alcune settimane fa) una nuova modalità di condividere le entrate con le organizzazioni che si occupano dei contenuti tramite un nuovo metodo per la condivisione dei dati. In quella stessa settimana, il Governo degli Stati Uniti ha varato una nuova legge che consente l’accesso a tutti i nostri dati personali presenti online.

Un futuro diverso è possibile?

Ci deve essere un’altra strada. Non c’è niente di male se il giornalismo diventa digitale. Ma non è questo il problema. I giornalisti sono abituati a pensare in fretta e sanno adattarsi ai cambiamenti. Ma hanno la brutta abitudine di mangiare. Se sono restii a passare al digitale è perché temono di essere spinti in un precipizio e non vogliono fare la parte dei lemming, suicidandosi in massa.

I sussidi possono essere una soluzione a breve termine. E potrebbero essere necessari anche a lungo termine, ma una soluzione che preveda forme innovative di giornalismo e che abbia possibilità di successo richiede che i giornalisti abbiano il permesso di fare ricerche liberamente e che vengano pagati.

Questo è il futuro. Non bisogna trovare modi di eliminare i giornalisti professionisti e il giornalismo professionale. O abbassare la qualità del lavoro e del prodotto. Bisogna trovare modi tramite i quali i cittadini non solo partecipino, ma paghino anche il giornalismo di cui tutti abbiamo bisogno.

Se possiamo avere carte ricaricabili che permettono di pagare piccole somme senza dover firmare o riempire moduli, perché non possiamo disporre di questa tecnologia online? Perché i pagamenti online non possono essere fatti cliccando si o no alla richiesta di pagare pochi centesimi per leggere un articolo? Sistemi di pagamento intelligenti che non siano legati ai dati personali restituirebbero il web alle persone che realmente contano: giornalisti, scrittori, musicisti, ideatori di applicazioni, animatori e altre persone creative.

Forse è proprio per questo che tali sistemi non esistono. Forse il vero motivo per cui non riusciamo ad avere un sistema semplice di pagamento online non è la mancanza di tecnologie adeguate, ma il fatto che questo impedirebbe ai grandi editori di controllare e gestire tutti questi dati sensibili. Impedire alle realtà più piccole di partecipare è nell’interesse della grande industria, e lo fanno dicendoci che l’informazione deve essere aperta. Dovremmo smettere di ascoltarli.

I democratici devono svegliarsi e comprendere ciò che rischiamo di perdere. Ci deve essere un’alternativa alla libertà e gratuità dell’informazione, se vogliamo che il vero giornalismo, la vera innovazione e la vera democrazia sopravvivano.

Giorgio Guzzetta

Accademico errante, residente a Roma dopo vari periodi di studio e lavoro all'estero (Stati Uniti, Inghilterra e Sudafrica). Si è occupato di letteratura italiana e comparata, globalizzazione culturale, Internet e nuovi media. Occasionalmente fa traduzioni dall'inglese e dal francese.

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