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Cile: la rivolta che verrà

Dalla prima marcia organizzata nel maggio 2011, il movimento studentesco e sociale in Cile ha fatto passi da gigante non solo a livello mediatico.

Gli attuali successori dei carismatici rappresentanti universitari ora mettono sul tavolo dei lavori la questione degli incresciosi interessi sul credito per gli studi superiori con il finanziamento dello Stato, ma annunciano anche l’intenzione di rafforzare i legami con altri settori sociali del Paese. Non a caso Camila Vallejo (ex rappresentante della Federazione di Studenti dell’Università del Cile) è presente in Italia insieme a un dirigente della CUT (sindacato dei lavoratori).

Se è vero che la rivolta è partita come una reazione a una non più tollerabile politica del lucro in ambito didattico, la sua evoluzione ha poi puntato verso una ricerca comune a molti strati e ceti sociali. In gioco è anche la revisione dei parametri strutturali con cui il Governo ha continuato a intervenire economicamente e politicamente sulle vite dei cittadini — pur se i Ministri continuano a tergiversare, indirizzando le risposte sui maggiori introiti per le banche, la salvaguardia degli interessi di imprenditori culturali e dei servizi basilari privatizzati fin dall’era Pinochet. I 30 anni di governo di sinistra, culminato, per ora, con il quello di Michelle Bachelet, si è trascinato dietro non solo il testo costituzionale ma anche un’organizzazione iniqua nel sociale e nelle politiche delle prestazioni sanitarie e didattiche.

Oltre a non dare ascolto alle petizioni ben articolate e sostenute da conti alla mano, il governo quest’anno ha rincarato la dose in materia di restrizione alla libertà di espressione dimostrando il lascito della violenza armata di Stato. La legge Hinzpeter, dal cognome del Ministero dell’Interno, approvata lo scorso dicembre, prevede l’inasprimento delle pene nei confronti di chi si trovi coinvolto nella promozione, organizzazione o partecipazione in eventi o atti di forza e violenza, disordini pubblici o occupazioni di scuole o luoghi istituzionali. Così come prevede la consegna “volontaria” alle forze dell’ordine di materiale fotografico o video dietro richiesta dell’autorità giudiziaria. Fatto che infrange le minime garanzie per i giornalisti nazionali e indipendenti che si trovano a dover denunciare vessazioni e danni da parte delle forze dell’ordine.

La legge mette in evidenza la politica restrittiva per manifestazioni e atti pubblici di aggregazione e manifestazione del dissenso, in particolare alla luce delle recenti violenze esercitate nei confronti di ragazzi e ragazze occupanti, che hanno denunciato un trattamento cruento dentro o fuori gli edifici scolastici. Gas lacrimogeni di sospetta composizione chimica che producono forti reazioni fisiche, detenzioni prolungate in pieno sole e in strada, non solo durante i cortei finiti con ampi disordini. Perché la politica di violenza economica va di pari passo con la repressione fisica di queste migliaia di studenti e lavoratori che dopo anni di attesa e silenzio sono usciti dalle loro case a esprimere il disagio.

I giovani dai 14 anni in su si vedono particolarmente penalizzati da queste disposizioni. Basta ricordare il 14enne Manuel Gutierrez, assassinato da un carabiniere lo scorso 26 agosto, ma rimasto praticamente impunito dopo un processo militare a porte chiuse. I ragazzi delle scuole medie e superiori hanno poi coinvolto gruppi sociali emarginati, oltre a facilitare la partecipazione anche dei genitori, recuperando così una voce ignorata dalle parti politiche al potere.

L’appello alle marce ha superato il numero di 40, con cortei che hanno visto fino a 100.000 persone presenti sulle vie di Santiago ma anche di città come Valparaìso, Temuco, Talca e Concepciòn. Oltre agli studenti, nel 2011 altri gruppi sociali sono scesi in piazza per esigere un cambiamento dal basso e totale. Donne a sostegno dei loro diritti e della pari dignità, cittadini di quartiere emarginati che bloccano le strade, i mapuche che rivendicano la liberazione dei loro compagni incarcerati con il pretesto di occupazioni e disordini nei loro stessi territori. Ciò grazie alla legge antiterrorismo, che nel sud del Paese, soprattutto per gli interessi imprenditoriali e razzismi culturali atavici, sta mettendo quotidianamente a rischio la vita di famiglie intere di mapuche a causa della violenza delle Forze speciali dei Carabinieri e dei militari, che criminalizzano e diffondono notizie fasulle per giustificare le loro azioni. Il tutto nel silenzio pressoché totale dei media mainstream.

Questa è la realtà che esige una presa di posizione da parte dei cittadini e da parte dei politici dell’opposizione che finora, oltre alla tiepida difesa in alcuni casi, hanno lasciato il vuoto nel dialogo apertosi, inevitabilmente, dopo questi mesi.

La strada è lunga. Occorre socializzare e rendere consapevole anche chi ritiene che non tutti debbano avere accesso all’istruzione di livello superiore, oltre alle vecchie guardie nostalgiche della dittatura. Ma soprattutto, quello che resta da fare è ‘svegliare’ la classe media più propensa al consumo, ma strangolata dai debiti, a esigere una revisione dei conti e dei servizi che riceve a costo di sacrifici e prestiti da saldare. Bisogna uscire dall’individualismo per recuperare un’azione solidale che stia al passo con le effettive possibilità di un Paese che dovrebbe e potrebbe assumersi le responsabilità amministrative e economiche che gli competono.

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