Ho sentito il bisogno di scrivere questo post per esorcizzare da subito il fastidio che mi procureranno i titoli allarmistici della stampa europea sul successo degli islamisti alle prossime elezioni tunisine.
Dopo il mio viaggio in Tunisia a febbraio, ho avuto una difficoltà immensa a scrivere sugli eventi che hanno seguito la fuga di Ben Ali, i ribaltoni, le congiure, le teorie del complotto che si susseguivano a un ritmo frenetico. Mi mancava sempre qualcosa: informazioni, conoscenza del terreno, documenti, per riuscire a farmi un’opinione anche solamente provvisoria. Un sentimento di confusione condiviso con molti. E piuttosto che scrivere incertezza con il tono dell’obiettività, ho deciso di non scrivere. Vi racconto questo perché il flusso di articoli nella stampa comincia piano piano a riempirsi con l’avvicinarsi delle elezioni. Capisco il limite strutturale del giornalismo che si occupa di estero, e non chiedo ai giornalisti di imitarmi nella prudenza di questi mesi, anche perché non sono giornalista. Ma questi limiti non dovrebbero giustificare l’allarmismo preventivo e il non prendere in considerazione la posta in gioco di queste elezioni.
Provo ora a essere più chiaro per tutto coloro che non seguono la politica tunisina da vicino. In questi ultimi mesi, da un lato si è fatto vivo un attivismo di stampo salafita da parte di certi gruppuscoli minoritari ma visibili, dall’altro il primo partito politico tunisino si conferma essere Nahdha, un partito islamico-conservatore che rivendica il suo carattere democratico. Il rischio che questo clima culturale possa sboccare su uno scenario liberticida esiste e non lo voglio negare, ma esistono anche altri scenari ben più auspicabili e la situazione è ben più complessa di quello che il grido al pericolo islamico nel caso di una probabile vittoria di Nahdha può descrivere.
Le elezioni tunisine riguardano la formazione di un’assemblea costituente che avrà un anno per scrivere il regolamento delle battaglie politiche e segnerà profondamente il futuro della Tunisia. Portare il dibattito sul quadro istituzionale e non sull’esito identitario delle elezioni è essenziale, perché è da questo dibattito che dipenderà la libertà d’espressione, l’alternanza, la possibilità data a tutti di partecipare a una democrazia che non sia di facciata come fu il multipartitismo virtuale di Ben Ali. E non è per niente scontato che siano le forze laiche tunisine, ancora intrise per ragione storiche di autoritarismo, a garantire l’apertura necessaria a una società che si è rivelata frammentata e multiculturale dopo la caduta del velo omogeneizzante della dittatura.
Più che l’Iran, i tunisini hanno in mente l’esperienza dei loro vicini algerini e la guerra civile decennale che ha seguito l’intervento dell’esercito nel 1991 per impedire la vittoria elettorale degli islamisti del FIS. La mia convinzione personale e il mio pensiero politico sono all’opposto di quello di Nahdha, ma voglio confrontarmi direttamente e apertamente con loro. Finché non vedrò Nahdha lavorare all’interno della Costituente per proporre i principi e le regole che impediscano il dialogo e il conflitto politico aperto, non avrò paura della loro vittoria perché semplicemente non possiamo permettere alla Storia di ripetersi. Il contesto del fatalismo autoritario congeniale ai Paesi arabi si è rotto con le rivolte popolari desiderose di libertà. Se non accettiamo il pericolo democratico tanto vale ammettere che ci andava bene la dittatura.
Questo testo deve molto all’eccellente analisi della psicologa Salah Menia pubblicata su Le Monde.
Mehdi Tekaya, 29 anni. Cittadino belgo-tunisino, ha conseguito una laurea in Storia Contemporanea all’Università di Liegi. Vive da 5 anni in provincia di Reggio Emilia dove è consulente in tecnologie dell’informazione. Co-autore del libro “Tunisia 2011: la rivolta del gelsomino“