19 Aprile 2024

Londra, una campagna per la pace lunga dieci anni

Ci sono proteste che fanno molto rumore e durano poco e ce ne sono altre che sono silenziose ma possono andare avanti anche per dieci anni. Come quella in corso a Londra. Non in un sobborgo o in un luogo qualunque ma di fronte alla sede del Parlamento inglese. The Parliament Square Peace Campaign sembrava l’iniziativa di un folle (e per molti lo è ancora) eppure è un’esperienza che dura e che anzi nel corso degli anni si è arricchita di sostenitori e … tende da campeggio.

Protesta per la pace in Parliament Square. Foto © Antonella Sinopoli

All’inizio la tenda era una soltanto, quella di Brian Haw ed era il 2 giugno 2001. Brian lavorava come falegname allora, 52 anni, una moglie e sette figli. Quel giorno andò dinanzi al Parlamento con un cartello “Stop killing our kids” (Smettetela di uccidere i nostri bambini). I bambini erano quelli iracheni e la protesta contro le sanzioni in atto in quel periodo contro l’Iraq. Da quel giorno di cose ne sono successe parecchie: l’attacco alle torri gemelle, le guerre in Iraq e Afghanistan, gli ultimi conflitti israelo-palestinesi… Tutti motivi per restare su quella piazza e continuare a lottare per la pace.

Brian è rimasto lì per dieci anni obbligando stampa e istituzioni a fare un po’ di attenzione a quello che diceva. Un’attenzione che forse a volte non avrebbe voluto, considerando quante volte sia lui che gli altri attivisti, che intanto si erano uniti alla campagna, sono stati portati in cella. Brian è morto lo scorso giugno per un tumore ai polmoni, ma nessuno ha intenzione di lasciare la piazza. Anzi. Abbiamo incontrato giovani e anziani, pensionati, studenti e senza lavoro, madri e figli, londinesi, arabi, sud americani, iracheni… Una babele di lingue, religioni, culture, esperienze di vita. Qualcuno dorme in tenda, qualche altro torna a casa la sera o va a lavorare e poi ritorna.

Protesta per la pace in Parliament Square. Foto © Antonella Sinopoli

Per molti è diventato un evento come gli altri che la capitale britannica offre. Come i figuranti nei pressi del Millennium Bridge o a Covent Garden (chi travestito da Queen Elizabeth, chi da pirata, chi da non so cosa). I turisti arrivano e fotografano, la polizia di fronte o alle spalle dei giardini resta a guardare che tutto fili da copione e loro cercano di spiegare al mondo che passa che le guerre sono solo un danno per i civili e che hanno fatto più morti di quanti davvero sappiamo.

I poliziotti londinesi con apparente discrezione controllano che tutto fili liscio.
Foto © Antonella Sinopoli

Qualcuno ha provato a fornire cifre e studi che escano dall’ufficialità, come l’American civil liberties union. Per quanto riguarda la guerra in Iraq le fonti, negli anni, sono state diverse, dall’Iraq Family Health Survey all’Iraq Body Count project a Wikileaks. E un grande lavoro di recupero dati è stato fatto da Unknown news da una coppia di “giornalisti amatoriali” come loro stessi amano definirsi. In sintesi, quello che risulta dai documenti a disposizione è che i civili morti – solo per l’Afghanistan e l’Iraq – sarebbero oltre un milione.

Da Parliament Square la protesta di questi tenaci sembra silenziosa. Eppure basta avvicinarsi per sentire le loro voci alzarsi e dire: no alle guerre, no al nuovo imperialismo della coalizione, no alle notizie edulcorate dei mainstream. No. E se ad ascoltare sono solo turisti distratti a loro sembra importare poco. Quello che sembra interessargli è semplicemente fare la loro parte. Portare avanti con dignità la battaglia in cui credono. Senza lasciarci convincere di essere solo degli illusi e che la loro protesta non porterà mai a nulla.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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