La Siria in rivolta, tra il fermento della società civile e gli interessi stranieri

[Nota: l’articolo originale di Emilia Stoduto è pubblicato su Equilibri.net e coperto da copyright, ripreso dietro autorizzazione].

Proteste a Hama, Al-Assy Square, 22 luglio 2011
Proteste a Hama, Al-Assy Square, 22 luglio 2011

A sostenere il bisogno di cambiamento del popolo siriano, oltre alle figure storiche dell’opposizione al regime Assad, come Bourhan Ghalioun [nominato recentemente Presidente del Cnt siriano], Michel Kilo e altri firmatari della Dichiarazione di Damasco del 2005, appaiono anche movimenti dal basso, che si muovono in rete e che seguono le vicende dall’interno e dall’esterno del paese. I rappresentanti di queste opposizioni si sono ufficialmente riuniti ad Antalya, in Turchia, per portare avanti le richieste del popolo siriano con un discorso comune sul futuro del Paese.

I lavori della conferenza di Antalya, che si è tenuta dal 31 maggio al 3 giugno, hanno prodotto un documento  in cui si chiede libertà e dignità per il popolo siriano e si chiede al presidente Bashar al-Asad di “dimettersi immediatamente da tutte le sue funzioni e posizioni e di consegnare l’autorità nelle mani del vice-presidente […] fino all’elezione di un governo di transizione“. Si richiede, inoltre, un nuovo governo in un anno di tempo dalle dimissioni di al-Assad, ma soprattutto una costituzione che rappresenti tutte le componenti del popolo siriano e che contenga la separazione dei poteri e il rispetto dei diritti del popolo.

A chiedere queste condizioni sono i firmatari dell’”Iniziativa nazionale per il cambiamento” , gruppo dell’intellighenzia siriana, perlopiù siriani residenti all’estero e in particolar modo negli USA, in cui non figura la presenza di membri di particolari correnti islamiche. Il loro leader è Raḍwān Ziyāda, ricercatore della George Washington University. A loro si aggiungono anche 150 oppositori e dissidenti siriani che animano invece i “Lccsy – Comitati di coordinamento locale siriano” , molti dei quali residenti in Siria. Questi gruppi di opposizione hanno dichiarato che continueranno ad appoggiare la rivolta fino a quando non verranno accettati i punti del loro documento.
Più disponibili al dialogo con le autorità governative, sono i dissidenti interni, tra cui Michel Kīlō, scrittore cristiano, già noto oppositore del regime Assad e attivista per i diritti umani, firmatario nel 2005 della “Dichiarazione di Damasco”, e lo scrittore alawita Lu’ay Ḥusayn, i quali, almeno in un primo momento, si erano mostrati disponibili ad una soluzione riformista per il conflitto.

Nonostante il fronte di opposizione sia abbastanza eterogeneo e frammentato, in questa occasione è riuscito a elaborare “La dichiarazione finale della conferenza siriana per il cambiamento”. La corrente islamista tra i partecipanti alla conferenza era rappresentata da alcuni esponenti dei Fratelli musulmani in veste non ufficiale, ma è stata fortemente controllata da tutti gli altri membri della conferenza e nel documento finale si parla infatti di “Siria laica”. Che la fratellanza musulmana sia tenuta fermamente sotto controllo dal resto del movimento emerge anche dalle dichiarazioni di Yasar Fattoum, amministratore della pagina facebook Syrian Uprising 2011 Information Centre.

Yasar è un ragazzo siriano residente in Italia da alcuni anni e, da quando sono iniziate le prime proteste nel suo paese, ha creato, con la collaborazione di altri ragazzi siriani nella sua stessa condizione di “esilio” all’estero, questa pagina di informazione della situazione in Siria in lingua inglese, con l’obiettivo di diffondere le notizie anche ai non parlanti la lingua araba. Questi ragazzi sono continuamente in contatto con gli amministratori dei Lccsy, fonte di informazioni abbastanza affidabile, poiché presenti sul territorio e in contatto con tutti i centri della Siria, nonché organizzazione di opposizione presente alla conferenza in Turchia.

Ancora Yasar racconta che i Lccsy, si rifanno nella stesura di programmi a personalità siriane storicamente dissidenti come Haitham al-Maleh, ex giudice siriano noto per il suo impegno nei diritti umani, e soprattutto a Bourhan Ghalioun, esperto di sociologia politica e docente della Sorbona, assente ad Antalya perché in polemica con alcuni partecipanti da lui accusati di voler sfruttare la situazione per scopi personali.
Queste dunque le ufficiali forme di opposizione presenti ad Antalya e promotrici del documento finale della conferenza.

Nel documento ci sono buoni presupposti, ma in un Paese complesso come la Siria è difficile immaginare un governo che sia in grado di rispettare davvero tutti i delicati equilibri tra le minoranze etniche e religiose che lo compongono. Quanto e da chi sono influenzati i movimenti di opposizione non si sa davvero bene. A questo proposito, su di un partecipante alla conferenza di Antalya, Usāma al-Munağğid, sono emersi degli articoli provenienti da documenti diplomatici americani diffusi da Wikileaks.

Al-Munağğid, siriano esiliato a Londra, è un membro del Movimento per la Giustizia e lo Sviluppo ed attivista dell’opposizione al regime. I documenti in questione parlano di finanziamenti da parte degli USA agli esiliati siriani a Londra, tra il 2006 e il 2009, finanziamenti che dovevano sostenere le opposizioni al regime siriano e la nascita di una tv indipendente siriana: Barada Tv, nata nell’aprile 2009 e strettamente collegata con il Movimento di al-Munağğid.

La possibilità che attori esterni finanzino i gruppi di opposizione non è così remota dunque, la fuga di notizie riguardo alla persona di Usāma al-Munağğid lo conferma. Se attraverso questi finanziamenti, gli Stati Uniti siano riusciti davvero a controllare la rivolta, al momento non è dato saperlo. Di sicuro vari tipi di interessi ci sono: la destabilizzazione della Siria con eventuale cambio di regime e un possibile cambiamento di fronti di alleanza, con conseguente isolamento dell’Iran e l’interruzione del ruolo di contatto tra quest’ultimo e Hezbollah in Libano, e Hamas in Palestina.

I dubbi riguardo a chi davvero animi questa rivolta popolare sono stati espressi sin dall’inizio dal presidente Bashar al-Assad, dal suo entourage e da tutta la popolazione siriana “fedele” al presidente.

A fomentare l’idea per cui ci sia la volontà di potenze straniere a spronare il popolo siriano alla rivolta sono state le notizie passate continuamente dai notiziari governativi. In particolare sono stati al centro della questione quei cecchini non identificati che sparavano dai tetti sulla folla, durante i primi fermenti di rivolta, soprattutto a Daraa. Il governo ha sostenuto fossero appartenenti a gruppi assoldati da Israele e Stati Uniti.  La loro identità è ancora incerta, poiché molti, siriani e non, ritengono che possa trattarsi anche di soldati dell’esercito siriano.

Il settarismo come importante deterrente alla rivolta

Nonostante un fronte di opposizione un po’ frammentato, ma sicuramente molto determinato e nonostante la violenza dell’esercito del presidente al-Assad, c’è ancora un’ampia fascia di popolazione a sostenerlo, non ultimi proprio quei lealisti che hanno attaccato le ambasciate francese e statunitense di Damasco, il 10 luglio scorso. L’attacco era avvenuto in conseguenza al viaggio degli ambasciatori dei relativi paesi ad Hama, Siria centrale, teatro di gravi massacri con un alto numero di vittime.

Gli ambasciatori non avevano comunicato al governo siriano questa visita. In questo contesto tale viaggio è stato percepito come un’ingerenza pericolosa: gli animi si sono infiammati di fronte al rischio che si diffondessero notizie ufficiali (poiché provenienti da ambasciate) contrastanti con le versioni governative. Intorno al presidente Bashar al-Assad si raccolgono ancora, in particolar modo, la borghesia mercantile cristiana e musulmana e, ovviamente, la sua stessa gente: gli alawiti, la minoranza al governo.
Un presidente appartenente ad una minoranza religiosa, potrebbe essere visto come una garanzia per tutte le altre religioni minoritarie. Specialmente in quanto proveniente dalla minoranza alawita, considerata quasi eretica dall’Islam sunnita e cioè dalla corrente maggioritaria nel Paese. Dunque la tutela garantita alle minoranze del Paese garantisce a sua volta il sostegno delle stesse minoranze al governo. In questo clima il rischio che la rivolta generi una Siria settaria tempera gli animi soprattutto dei cristiani, molto presenti nelle maggiori città come Damasco e Aleppo, e dei musulmani più moderati.

La più grande paura di queste fasce della popolazione nell’immaginare una Siria post-Assad, è infatti quella che possa prendere il potere una frangia estremista islamica, provocando squilibri irreparabili all’interno del Paese. In questo caso la tranquilla convivenza tra minoranze religiose ed etniche che ha fatto della Siria un esempio di integrazione nel Medio Oriente, potrebbe non rimanere tale. Potrebbero verificarsi come in Libano attriti e scontri tra fazioni o addirittura come in Iraq una situazione di instabilità più grave e perseverante con il rischio di preparare il terreno ad interventi stranieri.

Quale destino per la Siria?

Le proteste continuano e non si sono arrestate nemmeno in coincidenza del Ramadan. La proposta del presidente Bashar al-Assad di un “dialogo nazionale” non ha ottenuto il successo sperato nemmeno tra le file dell’opposizione più disponibile a un incontro. Infatti, poiché era stata richiesta la fine delle violenze come condizione necessaria per un’apertura al dialogo, l’incontro del 10 e 11 luglio a Damasco è stato disertato da quasi tutte le forze d’opposizione.

Se si riuscirà ad ottenere una “nuova Siria” rimane da vedere, sicuramente c’è una società civile in fermento che la vuole davvero e che spera che presto i giovani siriani che compongono l’esercito si ribellino ai loro comandanti alawiti e non sparino più sulla folla. Si chiede una Siria che rispetti il suo popolo, in tutte le sue varietà etniche e religiose, e che compia il suo percorso senza interventi di interessi stranieri, ma il percorso da seguire per giungere a questo scopo non è privo di insidie.

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