Voci Globali

Energia e pace in Medio Oriente

[Nota: Questo post è a cura di Iolanda Frisina*, appassionata e studiosa di tematiche e cultura mediorientale]

C’è chi la pace tra Israele e Palestina la discute da decenni in negoziati diplomatici che ancora non trovano una soluzione effettiva alla convivenza. Ma c’è anche chi in quelle terre la pace e la convivenza le attua in maniera già pratica, superando le barriere culturali e religiose che, almeno apparentemente, sembrano insormontabili quando si discute sui tavoli politici o li si imbastisce con l’integralismo.
Tra i praticanti del dialogo efficace, si riconosce COMET-ME (Community, Energy and Technology in the Middle East), un’iniziativa nata dall’incontro di due fisici e attivisti israeliani, Noam Dotan e Elad Orian, che decisero di mettere in piedi qualcosa di nuovo che potesse sia contribuire fattivamente al sostentamento e allo sviluppo delle comunità palestinesi di una delle aree più povere dei Territori occupati, sia sollevare essi stessi dal peso morale dell’occupazione, contro cui si erano sempre schierati aderendo a manifestazioni pacifiche.

La loro idea fu quindi quella di facilitare la sopravvivenza delle comunità creando delle strutture che potessero portare energia laddove questa non era prevista. Il territorio a sud del monte Hebron (cosiddetta “area C”) in cui opera COMET-ME è di fatto la parte dei Territori più povera e totalmente controllata da Israele, in cui, nonostante presso alcuni villaggi passino addirittura i cavi aerei che conducono energia elettrica alle abitazioni di civili israeliani, le comunità palestinesi restano escluse dal collegamento alla rete di distribuzione.
L’avvento dell’energia sostenibile nei villaggi in cui è predisposta una struttura COMET-ME, realizzata tramite turbine eoliche e pannelli solari, permette alle famiglie di sostenere un tenore di vita che copre se non altro i fabbisogni minimi di sopravvivenza della comunità.

Un altro concetto che determina l’autonomia delle comunità è quello che viene sostenuto da COMET-ME, un progetto effettivamente “israelo-palestinese”: gli israeliani si fanno carico di intervistare la popolazione locale e analizzare così i requisiti e il dimensionamento secondo le esigenze palesate dagli stessi palestinesi, mettono a disposizione la propria capacità ed esperienza tecnologica per la costruzione delle turbine, quindi realizzano assieme agli arabi le installazioni sul territorio; saranno gli stessi palestinesi a occuparsi poi del mantenimento degli apparati, grazie al passaggio di conoscenze integrato nel processo da COMET-ME.
Oltre alla disponibilità dei progettisti che contribuiscono in maniera volontaria durante il loro tempo libero alla realizzazione degli impianti, il progetto sopravvive grazie al sostegno di organizzazioni che ne riconoscono l’importanza umanitaria e sociale. L’obiettivo è quello di portare l’energia sostenibile a quanti più villaggi possibile nei territori a sud del Monte Hebron: si conta che ci siano almeno altre 10 comunità che ancora non dispongono di fonti alternative e che vivono in condizioni sociali ed umane infime.

In questo video la sintesi di come funziona il progetto

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Ed ecco alcuni tratti di un’intervista resa da Noam Dotan, co-fondatore di COMET-ME:

Sig. Dotan, quando e come avete sentito l’esigenza di dover fare qualcosa?

Elad (Elad Orian è co-fondatore di Comet-ME, ndr) ed io eravamo attivisti già da molto tempo, assumendo un atteggiamento non violento contro l’occupazione israeliana nei Territori Palestinesi, in particolar modo dell’area a sud del monte Hebron. Non ci sentivamo di esser parte del conflitto e ciò nonostante non potevamo restare indifferenti nei confronti dei danni che l’occupazione causa alla vita quotidiana della popolazione palestinese in quelle aree, influendone anche sul futuro. Entrambi avevamo preso parte a diverse dimostrazioni e attività politiche e di solidarietà a favore dei palestinesi, ma volevamo fare qualcosa che fosse “per” e non giusto “contro”. La nostra volontà era quella di fare qualcosa di positivo a sostegno della vita di quelle persone.
La necessità di energia nelle lontane comunità a sud dell’Hebron rappresentava qualcosa di chiaro ed immediato. Ci siamo trovati entrambi interessati a dare una mano in questo campo. Molte delle persone delle comunità ci conoscevano già per via del nostro attivismo. Ci sentivamo di condividere i loro problemi e così decidemmo di provare a realizzare un piccolo cambiamento. Questo rappresentava per noi anche un modo per lavorare fianco al fianco con le persone del posto e di sentirci parte di un cambiamento positivo piuttosto che dover subire il peso di un conflitto senza fine. Questo è per noi il modo reale per combattere la segregazione, il razzismo e la violenza.

Immagino che portare avanti un progetto come questo in un’area militarmente controllata, con stringenti misure di sicurezza imposte dalla critica situazione vissuta nei Territori, può essere problematico. C’è mai stato qualche rischio? E qual è stata sinora la peggiore situazione in cui siete venuti a trovarvi?

Generalmente sono i palestinesi a prendere dei rischi. Essendo noi israeliani, siamo soggetti a una legislazione civile diversa. Se un palestinese è arrestato, può essere trattenuto fino al processo prima che possa essere ascoltato da un giudice, anche se è innocente. Essendo le installazioni abbastanza importanti, anche per le dimensioni degli apparati, evitiamo al massimo di generare qualsiasi situazione o confronto che possa mettere a rischio il progetto. Cerchiamo di lavorare sempre con circospezione. Fino ad ora non ci sono mai stati problemi. Inoltre i progetti che realizziamo sono a carattere umanitario e si svolgono grazie al sostegno di diversi stati ed organizzazioni. Speriamo che la pressione diplomatica esterna ai progetti possa garantire una protezione in tal senso.

Da dove ricavate i fondi per i progetti?

Comet-ME è un’organizzazione no-profit. Riceviamo sovvenzionamenti da diversi stati ed organizzazioni. Il loro elenco è pubblicato sul nostro sito Web.

Quanto ci vuole generalmente per completare il processo di elettrificazione di un villaggio?

Può variare da posto a posto. Il lavoro consta delle seguenti fasi: incontro con la comunità e analisi delle loro necessità; progettazione della soluzione tecnica; relazione della proposta tecnica e ricerca dei fondi; acquisto del materiale e costruzione delle apparecchiature presso il nostro laboratorio; trasporto non sempre agevole per la conformazione del territorio e la distanza di alcune comunità, a volte non collegate da vere e proprie strade; installazione del sistema. I tempi di implementazione variano da situazione a situazione, ma in media occorre circa una settimana per l’installazione completa sul posto.

Quale è il principale ostacolo che incontrate nel portare avanti i progetti?

La cosa più difficile è ottenere i fondi. Ci vuole molto tempo e questo è il limite reale della nostra attività. Al momento, infatti, ci sono almeno altre dieci comunità scollegate dalla rete distributiva che attendono di poter fare uso di energia elettrica.
Un altro aspetto da considerare è poi il fatto di lavorare con comunità che non hanno mai avuto elettricità in passato, quindi il dover analizzare in anticipo, sulla base di mere informazioni, quali sono i loro usi, le esigenze e la struttura della comunità. La nostra attività non si limita mai all’installazione, che rappresenta anzi il punto di partenza del nostro lavoro presso le comunità. Visitiamo regolarmente i villaggi anche per riadattare eventualmente il loro sistema a nuove esigenze. Il mantenimento del sistema è inoltre un valore fondamentale della sostenibilità del progetto. Investiamo così tanto da voler poi essere certi che quanto realizzato possa essere sostenibile poi per molti anni per il benessere della comunità.

E qual è il più bel risultato di un progetto?

Ci sono molti aspetti che fanno valutare il successo di un progetto. A volte è lo sguardo di un bambino che può leggere un libro in una caverna, oltre il tramonto. Altre è quello di una madre che si sveglia nel cuore della notte per dar da mangiare a suo figlio e può accendere la luce. Inoltre, l’infrastruttura supporta la produzione meccanizzata dei prodotti caseari, generando così maggiori entrate per la popolazione, che si rende così meno dipendente dal mondo esterno. Per la maggior parte di noi, l’elettricità nelle case è un fatto ormai assodato e scontato; difficilmente riusciamo a immaginare un mondo privo di questa risorsa basilare. Prova a pensare al sollievo che arriva quando la corrente riprende a funzionare dopo esser mancata per un bel po’. Quando vedi il sorriso sul volto delle persone delle comunità la prima volta in cui l’elettricità arriva nelle loro case, allora hai ancora una volta lo spirito giusto e lo stimolo che ti sostengono per continuare a pensare a molti altri progetti per altre comunità.

Come vivete voi israeliani e palestinesi nei villaggi il contrasto quotidiano e senza fine che nasce da due culture così diverse?

Sebbene ci siano molte differenze culturali, condividiamo gli stessi valori e la stessa cognizione di cosa significa il male. Attraverso il lavoro, cerchiamo di sviluppare fiducia e il reciproco rispetto. E’ un processo lento, ma molto promettente. Semplicemente crediamo che questo sia il modo in cui debba essere.

Iolanda Frisina è interessata al mondo mediorientale. Appassionata di cultura araba ed ebraica, è alla costante ricerca di circostanze e occasioni che esprimono come il dialogo e la convivenza siano non solo realizzabili ma fondamentali per avvicinare orizzonti solo apparentemente lontani. E’ fotografa e blogger.

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