A investire non sono solo nazioni ricche, come gli Stati del Golfo o la Cina, per motivi strategici legati alla copertura del fabbisogno alimentare, ma anche società di Paesi emergenti e una molteplicità di altri soggetti privati avulsi dal mondo dell’agricoltura. Fondi speculativi (i così detti hedge fund, e gli equity fund) che mirano a rendimenti elevati e costanti senza correlazione con i mercati di riferimento e che, al riparo dall’attenzione mediatica, stanno acquisendo il controllo di risorse fondiarie e idriche e attirando anche i risparmi di qualche autorevole istituzione accademica.
E’ quanto emerge da un recente rapporto del californiano Oakland Institute, think tank indipendente che si propone di promuovere partecipazione e dibattito su questioni di elevata criticità sociale, economica e ambientale. Per i suoi ricercatori questi investimenti su vasta scala sarebbero in realtà portatori di incertezza alimentare, potenzialità di conflitti interni e instabilità politica, danni ambientali, perdita di risorse idriche e, in definitiva, di un sostanziale impoverimento delle nazioni africane coinvolte. Il think tank rilancia dunque l’allarme per le popolazioni. Costrette ad abbandonare terre e produzioni per fare posto a quelle destinate all’esportazione (fra cui i biocombustibili), non hanno garanzie di poter trarre vantaggi da questi movimenti di ricchezza.
Dal Belfer Centre for Science and International Affairs, il Prof. Calestous Juma, direttore del Science, Technology, and Globalization Project, invita invece a non formulare giudizi sommari dipingendo gli investimenti nelle terre africane come esclusivo veicolo di un nuovo colonialismo. Riconosce che gli accordi alla base di queste operazioni non sono in effetti strutturati per avvantaggiare le comunità locali in modo diretto, ma vede comunque tre grandi opportunità emergere per l’Africa in questo contesto: sviluppo scientifico e tecnologico, creazione di mercati regionali e l’emergere di una nuova generazione di imprenditori in grado di far crescere l’economia. Parla della necessità di investimenti infrastrutturali nelle aree rurali, in particolare nel settore dell’energia, dei trasporti, dell’irrigazione e delle telecomunicazioni, mentre l’imposizione della moratoria da più parti invocata equivarrebbe, nella sua ottica, a condannare il continente al suicidio economico, proprio ora che sta emergendo la determinazione necessaria a sfruttare le nuove tecnologie e promuovere lo sviluppo agricolo, puntando sulla specializzazione e sugli scambi che una migliore integrazione regionale potrà consentire, nel quadro di una più ampia strategia di stimolo alla trasformazione economica. Sintetizzando la visione che espone, l’Africa potrebbe riuscire a colmare il suo fabbisogno alimentare nell’arco di una generazione, contribuendo alla copertura del fabbisogno alimentare globale e avviando contemporaneamente un proprio processo di crescita durevole.
Vi è tuttavia preoccupazione per gli squilibri nel potere negoziale dei soggetti coinvolti e per la scarsa trasparenza.
In un articolato rapporto congiunto di IIED, FAO e IFAD risalente al giugno 2009 su Etiopia, Ghana, Madagascar, Mali, Mozambico, Sudan e Tanzania denominato Land grab or development opportunity? Agricultural investment and international land deals in Africa [qui il download gratuito del documento in lingua inglese] emergeva l’esigenza di linee di condotta e quella di promuovere consapevolezza a vari livelli. Naturalmente si segnalavano [p. 113] come insostenibili gli affitti fondiari a lungo termine (da 50 a 99 anni) stipulati senza attenzione alla soddisfazione di esigenze locali, con canoni irrisori o pari a zero, citando il caso Daewoo in Madagascar, per esempio. Preoccupazioni allora condivise anche sui media mainstream. In questo articolo (Il Sole 24 Ore, marzo 2010) si citava il libro di Francesca Roiatti, Il Nuovo Colonialismo – Caccia alle terre coltivabili (Università Bocconi Editore, 2009) evidenziando come nella partita giocata fra governi e privati «i piccoli contadini [invocassero] rispetto per i loro diritti, ma anche per un rapporto con la terra e il cibo profondamente diverso». Lo stesso direttore generale della Fao, Jacques Diouf, aveva denunciato il rischio di “un patto neocolonialista” e da più parti si invocava la necessità di tutele, di un codice di condotta. Lo faceva il presidente aggiunto dell’IFAD Kavin Cleaver, proponendo l’introduzione di una carta etica.
Anuradha Mittal, fondatrice e direttrice esecutiva dell’Oakland Institute, prendendo atto che gli organismi per le politiche di sviluppo internazionale contemplano la possibilità di un paradigma di investimenti responsabili capaci di dar luogo a una ‘win-win situation’, denuncia che allo stato attuale, nessuno ha una chiara comprensione delle implicazioni legali, sociali ed economiche degli accordi esistenti.
Ora l’Oakland Institute individua una necessità di approfondimento su tre fronti: serve avere dati più precisi e una maggiore comprensione della nozione di ‘terre disponibili’, serve fare chiarezza sulla natura degli accordi stipulati e sulle loro implicazioni per le popolazioni che patiscono l’insicurezza alimentare, e infine è necessario affrontare la questione dei diritti terrieri.
Non pare isolata la posizione di chi nutre timore per l’introduzione di una moratoria. In questo post sulla situazione etiope, pubblicato da Global Voices qualche settimana fa, si coglievano varie prospettive, fra cui voci che indicavano come priorità assolute l’ingresso di capitali, lo sviluppo tecnologico e l’acquisizione di knowhow. Naturalmente c’è chi teme che, sempre al riparo dai media mainstream, si moltiplichino opache situazioni di iniquità. Il bridge blogger malgascio Lova Rakotomalala, per esempio, riportava qualche mese fa le perplessità della testata web indipendente Tananews che si chiedeva come mai la locazione di durata cinquantennale concessa ai conduttori indiani dal Madagascar a prezzi stracciati non stesse suscitando lo stesso clamore provocato a suo tempo (2008) dalle analoghe manovre di Daewoo, peraltro all’origine della caduta dell’allora presidente Ravalomanana.
Si potrà neutralizzare quella parte di natura predatrice che risiede nell’attenzione riservata all’Africa, evitando la riproduzione massicia di modelli distruttivi già noti? Il citato rapporto IIED-FAO-IFAD del 2009 avanzava raccomandazioni per tutti i soggetti coinvolti (investitori, governi dei Paesi interessati dagli investimenti, società civile e agenzie internazionali per lo sviluppo), riflettendo sulla trasparenza degli investimenti statali e privati, dei sistemi e delle procedure che dovrebbero tutelare i diritti e gli interessi locali, delle negoziazioni contrattuali e più in generale dei processi decisionali che – auspicava il rapporto – andrebbero resi accessibili al controllo del pubblico, magari sulla falsa riga di altri settori che hanno realizzato risultati (per esempio la Extractive Industry Trasparency Initiative).
Le pagine dell’ultimo scorcio di Ventesimo secolo ci hanno raccontato che lo spazio del politico era andato restringendosi e che il sistema guida delle nostre società era diventato l’economia. Molti avevano preso ad appassionarsi alla narrazione della performance, anche se scollata dall’economia reale. Era la globalizzazione finanziaria post-moderna, zoppa, fatta di cifre a tanti zeri che correvano lungo i cavi di un pianeta chiaro-scuro. La diffusa richiesta di trasparenza, oggi, produrrà esiti concreti o sarà il buzz word dei prossimi decenni? E che ruolo avranno le nuove tecnologie della comunicazione, il web 2.0, l’internet mobile (il più diffuso in Africa)? Variabili, queste ultime, che nella dialettica fra economia e politica del secolo scorso non avevamo calcoltato.