La percentuale di giovani nei Paesi nordafricani e mediorientali rispetto a quelli europei è molto alta: in Marocco il 47,7% della popolazione ha meno di 25 anni, in Algeria il 47,5, in Tunisia il 42,2, in Libia il 47,4, in Egitto il 52,3, in Siria il 55,2 (in Germania tanto per fare un raffronto, la percentuale è del 24,8%, in Italia del 25,2). Questo pone la questione generazionale in primo piano, e non va trascurata nell’analisi dei recenti eventi. L’uso del termine speranza nel titolo del convegno probabilmente intendeva alludere anche a questo.
Anche le definizioni: facebook revolution o twitter revolution rientrano in fondo in questo tipo di discorso generazionale, anche se rimangono ad un livello superficiale. Tali definizioni sono state più volte contestate anche da chi si occupa da tempo di social media, come Amira Al Hussaini, coordinatrice di Global Voices Online per il Medio Oriente. Al Hussaini ha fatto notare che la rivoluzione è avvenuta in piazza, in strada e ha coinvolto persone e storie reali, non virtuali. Senza per questo sminuire il valore della Rete come strumento e come apertura di uno spazio di espressione nel contesto di regimi duramente repressivi.
Occorre allora domandarsi qual è la capacità di persistenza dei movimenti creati in Rete, cosa ne rimane una volta finita il momento puramente rivoluzionario?
La capacità di invenzione costituzionale, di dare un volto istituzionale ai valori messi in campo, anzi in Rete è, in questo senso, fondamentale. Tra i diritti per i quali ci si batte oggi va messo anche l’accesso alla Rete, non solo come competenza, capacità e possibilità tecnica ma anche come rimozione di ostacoli posti dal mercato o dal potere politico, secondo quanto dichiarato in un recente documento delle Nazioni Unite.
Il problema del passaggio dalla rivolta alla costruzione della democrazia è estremamente delicato ed investe non solo il dibattito sulla Costituzione, ma anche il ruolo e la condizione della donna. Lilia Zaouli, intellettuale tunisina, ha in particolare ulteriormente approfondito la questione del rapporto delle donne con la storia ripercorrendo la propria storia, la propria convinzione – maturata nel corso della sua educazione scolastica – che fossero stati gli uomini gli artefici della liberazione e che lei, in quanto donna, doveva la sua libertà dal colonialismo francese solo ed esclusivamente agli uomini. In realtà durante gli studi ha potuto constatare quanto questa affermazione fosse falsa, incontrando molte figure femminili, in prevalenza aristocratiche egiziane, che fin dalla metà dell’Ottocento si interessarono di politica e che pubblicamente appoggiarono le lotte delle donne occidentali per il suffragio universale, pur vivendo in una condizione di reclusione.
Parlando della situazione algerina, Cherifa Bouatta, psicologa impegnata nel sostegno alle vittime del terrorismo, ha ripercorso la storia dell’Algeria dal punto di vista femminile, partendo dalla situazione durante la guerra d’indipendenza in cui le giovani arabe si “occidentalizzavano” per fare da corrieri trasportando armi e bombe tra la Casbah e la città europea, come si vede in una scena del film di Pontecorvo La Battaglia di Algeri. Anche in Algeria questa storia è stata rimossa dal regime nazionalista che si è imposto dopo l’indipendenza, a favore del paradigma del patriarcato con il quale sono state educate le generazioni successive fino alle rivolte del 1988, in seguito alle quali si è imposto il fondamentalismo islamico e l’ideale del musulmano puro, che oscurava ancor più il ruolo della donna.
Parlando poi dell’Egitto anche la blogger Manal Hassan, ha sottolineato il fatto che per capire veramente come sono andate le cose bisogna andare al di là di blog e social network, e, per così dire, sporcarsi le mani con il mondo reale. Anche lei si è soffermata in particolare sul ruolo della donne in Tahrir Square, dove erano molto presenti, con ruoli diversi e su tutti i fronti: documentando, partecipando, aiutando come dottori e infermiere, ma questa non va considerata una novità. Negli ultimi 15-20 anni la presenza della donna è stata molto significativa in vari settori. Anche in quello dell’assistenza e cura alle vittime di tortura e varie forme di brutalità da parte delle forze dell’ordine.
Da circa 15 anni esiste il Nadim Center for the Management and Rehabilitation of victims of violence una ONG egiziana diretta da due dottoresse che si occupa di riabilitazione ma anche di informazione ed educazione sui problemi della tortura, della violenza contro le donne e di altri questioni inerenti la democrazia e la libertà nella società egiziana. Il sito Torture in Egypt documenta i casi di tortura ed è anch’esso gestito da una donna. Ma ci sono molti altri casi, come per esempio il 9 March Group for Academic Independence, in cui la presenza femminile è molto forte. Lo stesso vale per Kifaya (the Egyptian movement for change ) fondato nel 2004 da 300 intellettuali egiziani in opposizione al regime di Mubarak.
Insomma, la storia del movimento femminile nel mondo arabo è molto varia e ricca e va ricordata. Ma è altrettanto importante, secondo Sihem Bensedrine, il ruolo della donna in quanto futura cittadina. La giornalista e attivista tunisina si è soffermata soprattutto sul futuro, le cose da fare, le sfide da affrontare e sul ruolo della donna nello spazio pubblico tunisino durante il processo di creazione della democrazia. La società civile ha dato vita ad una coalizione di associazioni, tra cui quella delle donne, proponendo una sorta di roadmap “feuille de route”, incentrata su cinque cantieri considerati come prioritari sulla base dei dibattiti e delle esperienze di altre transizioni politiche (Russia, Perù, Polonia, Sudafrica): processo elettorale, media, giustizia, polizia, corruzione.