Il 30 maggio 2011 alcuni attacchi in diverse zone della città di Herat in Afghanistan, tra cui il Prt (Provincial Reconstruction Team) sotto il controllo italiano, hanno provocato 24 feriti (tra cui 5 militari italiani) e 4 morti. Che gli attentati siano avvenuti proprio ad Herat, una delle città considerate più tranquille, tanto che da luglio sarà formalmente “riconsegnata” dalla NATO alle forze armate afgane, è un fatto emblematico che evidenzia la situazione di violenza e insicurezza in cui il popolo afgano vive ancora oggi, a dieci anni di distanza dall’inizio dell’occupazione dei contingenti NATO. Un’occupazione il cui termine è previsto entro il 2014 ma che, avendo operato maggiormente a livello militare per la sicurezza, ha lasciato agli afgani il difficile compito di ricostruire da soli, dalle macerie, la società civile.
Di questo si è parlato pochi giorni fa, il 24-25 maggio, a Roma durante la prima Conferenza Internazionale delle Organizzazioni della società civile afgana, cui hanno partecipato ventuno delegati di organizzazioni della società civile afgana quali sindacati, Ong, associazioni culturali, network di donne. La Conferenza di Roma è il seguito di quella svoltasi a Kabul il 30 e 31 marzo 2011, nell’ambito del progetto “Rafforzare la società civile afgana”, promosso da Afgana e Intersos con un finanziamento della Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri.
«Il messaggio che da questa conferenza verrà rilanciato, seguendo le conclusioni di quella tenuta a Kabul poche settimane fa» ha detto Emanuele Giordana, portavoce di Afgana «è che le Organizzazioni della società civile afgana temono che il Paese venga di nuovo abbandonato, quando le truppe internazionali saranno ritirate. Con il rischio che l’Afghanistan precipiti di nuovo in un caos mascherato da processo di riconciliazione».
Da Barialai Omarzai dell’ACRU (Afghan Community Rehabilitation Unit) apprendiamo che le organizzazioni della società civile in Afganistan sono costituite da più di 2.000 sindacati e organizzazioni di settore e da circa 1.500 Ong ed enti no-profit, per un totale di 7.000 persone coinvolte, di cui la maggior parte uomini. Una realtà estremamente composita il cui coordinamento è indispensabile per garantire la forza e l’efficacia delle azioni, e il cui lavoro e valore andrebbe maggiormente riconosciuto dal governo centrale che, invece, ne ha recentemente chiuse 55.
Il governo centrale, inoltre, non è sufficientemente forte da arrivare in tutte le aree del Paese, tanto è vero che in quelle più remote e isolate la giustizia è ancora appannaggio delle leggi tradizionali e le donne, come racconta Suraya Pakzad della Voice of Women Organization, vengono ancora frustate, lapidate, giustiziate per i motivi più futili, esattamente come accadeva fino a dieci anni fa in tutto il Paese. D’altra parte, ci racconta che dei cambiamenti ci sono stati: per la prima volta oggi c’è una legge contro la violenza sulle donne che prevede il processo per l’aggressore, le donne sono presenti negli organi del Parlamento, nei Comuni, nei consigli di pace, finalmente cominciano a ricoprire ruoli tramite i quali contribuire al ricostituirsi della società civile. Pakzad sottolinea più volte che le donne afgane sono molto preoccupate per ciò che le aspetta dopo il ritiro delle forze internazionali, non ritenendo il governo afgano abbastanza forte da poter sostenere il cammino delle donne e garantirne la sicurezza. Perché, conclude, non c’è pace senza diritti e senza giustizia sociale.
L’intervento che forse più di tutti ha spiazzato la platea della Conferenza è stato quello di Sayed Niazi del Civil Society Development Centre. Niazi ha criticato aspramente l’operato dei Paesi giunti in Afganistan dopo il 2001, affermando che, arrivati sul territorio senza programmi e strategie, disponevano solo di soldi e con questi credevano di poter risolvere i problemi dell’Afghanistan. Così negli anni i progetti sono stati concepiti dai donors e non dai cittadini afgani. Niiazi ha poi fatto notare che non ci sono mai state così tante strade asfaltate nel Paese ma, purtroppo, sono tutte di bassa qualità al punto da dover essere rifatte. Tra l’altro, ha aggiunto, la costruzione delle strade spesso è stata voluta più per facilitare gli spostamenti dei militari che per agevolare la vita civile. Il suo intervento si è concluso con la denuncia di tutti quei Paesi che, dietro la facciata dei progetti di ricostruzione e sicurezza, stringono accordi internazionali con i signori della guerra, contribuendo al loro arricchimento a svantaggio della popolazione che per il 90% continua a vivere in condizioni di povertà. Condizione immutata, ha concluso Niazi, nonostante gli invii di aiuti da ogni parte del mondo, poichè gli enti internazionali presenti in Afghanistan, a causa della loro corruzione interna, li hanno gestiti indebitamente, favorendone così l’illecita dispersione.
L’Afghanistan è un Paese in cui c’è molto bisogno di maestri elementari, ha ricordato durante la Conferenza la Principessa India di Afghanistan, e dove la giusta istruzione può fare la differenza tra un popolo libero e un popolo asservito. Infatti, grazie all’istruzione e al senso civico, si può diventare un avvocato come Seyar Lalee del Civil Society and Human Right Network, che ha contribuito alla stesura della Costituzione dell’Afghanistan e che oggi si batte per i diritti umani e civili. Lalee ha illustrato come l’applicazione di una corretta giustizia transizionale sia una parte fondamentale del processo di costruzione di pace, la sola via per arrivare a uno Stato di diritto e alla stesura di leggi per i diritti civili. Una componente indispensabile della giustizia transazionale è inoltre, ha ricordato, l’istituzione dei processi contro chi abbia commesso crimini di guerra negli anni passati, una proposta questa in netto contrasto rispetto al governo centrale che, come si è scoperto solo di recente, aveva approvato già da tempo un’amnistia per i crimini di guerra, istituzionalizzando di fatto l’impunità.
Vista, dunque, la complessità dei rapporti tra governo e società civile ci auguriamo in conclusione, con le parole della dichiarazione finale dei delegati della Conferenza, che i rappresentanti della società civile possano essere parte attiva della prevista seconda conferenza di Bonn per un processo di pace “a porte aperte” che abbia al suo centro i cittadini.