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Brasile: alla ricerca di una globalizzazione inclusiva



[Articolo di Paola D’Orazio*]

Per evitare che lo sviluppo si trasformi in un viaggio con più naufraghi che marinai, il processo di globalizzazione – in particolare quello economico – va ristrutturato e gestito correttamente, lasciando da parte l’idea dell’economia del “trickle down”: se i processi economici non vengono controllati adeguatamente ci sarà sempre qualcuno che finirà per rimetterci. Come sostiene Joseph Stiglitz nel suo saggio “La Globalizzazione che funziona”,  le condizioni di vita possono essere migliorate sia nei Paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo solo se e quando la globalizzazione diventa un vantaggio concreto per tutti.

E’ certamente il caso del Brasile, uno dei quattro Paesi BRIC, (acronimo per Brasile, Russia, Cina, India) che secondo alcuni economisti domineranno l’economia internazionale nel corso del XXI secolo. Dove rimangono però evidenti grosse diseguaglianze: nella distribuzione del reddito, nell’accesso all’istruzione ed ai servizi sanitari.

“Ordem e progresso”: crescita e sviluppo?

Le strabilianti performance economiche brasiliane degli ultimi anni lo rendono un mercato particolarmente “interessante” per nuovi investimenti, soprattutto in campo immobiliare. Ponendolo al contempo come alleato importante nel settore industriale. E’ questo un elemento chiave per il nostro Paese che, al pari di altri Stati europei, quotidianamente si trova a competere con i cosiddetti Paesi emergenti (tra i quali lo stesso Brasile) che per definizione sono economie concorrenti, ma anche complementari, rispetto a quella italiana.

Grazie alla stabilità politica, all’implementazione di svariate policy orientate allo sviluppo di lungo periodo (tra cui il “Programa de Aceleração do Crescimento” varato nel 2007), a politiche di stabilizzazione monetaria e ad una maggiore flessibilità delle istituzioni fiscali e legislative che ha favorito l’attrazione di capitali esteri, il Brasile è entrato nel pieno della sua “golden age”. Negli ultimi anni il Pil è cresciuto ad un tasso del 5% circa annuo e l’indice di competitività (che misura il potenziale di crescita delle nazioni) ha superato in breve tempo quello della Russia, avvicinandosi anche ai trend economici di Cina e India.

Lasciando da parte gli indicatori economici e prendendo in considerazione lo Human Development Index – un indice elaborato dall’ONU che comprende i valori ponderati del PIL pro capite reale, della speranza di vita alla nascita, della alfabetizzazione e della diffusione del livello di istruzione – si nota come il Brasile non possa vantare una posizione alta nel ranking mondiale: su 169 Paesi analizzati, la quinta potenza economica mondiale occupa (appena!) la 73esima posizione. A precederlo sono, fra gli altri, Macedonia (71°), l’Albania (64°), l’Arabia Saudita (55°) e la Romania (50°). Dato che invita a riflettere e a valutare strategie alternative, che sembrano essere nell’agenda politica del nuovo governo di Dilma Rousseff, capaci di mettere comunque gli individui al centro dello sviluppo.

Il problema più grave – una vera e propria emergenza nazionale permanente – rimane la diseguaglianza nella distribuzione del reddito, nonchè l’accesso all’istruzione ed ai servizi sanitari. Importanti interventi statali hanno prodotto qualche risultato soddisfacente, riducendo il poverty gap del 12%, aumentando la frequenza scolastica dei bambini e la regolarità delle visite mediche, come ad esempio la Bolsa Escola (un sussidio monetario destinato a famiglie con basso reddito con bambini in età scolare e condizionato alla frequenza scolastica) implementata dal governo Cardoso nel 2001 o la Bolsa Familia  lanciata dal governo Lula nel 2003. Ciò nonostante, nel Paese e nei diversi Stati federali permangono evidenti le forti disparità socio-economiche che hanno caratterizzato storicamente il Brasile.


“Cidades Partidas”

Diversi studi sociologici, ma anche le semplici cronache quotidiane, rivelano l’emergere di “cidades partidas” (città divise). In alcune zone o quartieri cittadini è evidente come il progresso tagli come una lama l’assetto urbano: proliferano le aree di emarginazione dove le disuguaglianze, un mix di degrado e povertà, sono particolarmente accentuate. Pur a fronte di certi successi nelle “favelas pacificadas” di Rio de Janeiro, sono ancora in molti a vivere nel limbo dell’economia sommersa, senza diritti formali, sopravvivendo ai margini dell’economia globale.

Heliopolis e Rocinha (foto sopra), ad esempio, due delle più note favelas brasiliane, rispettivamente nelle città di San Paolo e di Rio de Janeiro, sono il simbolo dell’evidente esclusione sociale ed economica di molti brasiliani dal progresso generalizzato che sta investendo il Paese. La cosiddetta economia informale che domina le relazioni sociali nelle favelas è l’antitesi del corrispettivo formale, moderno e perfettamente integrato nei circuiti dell’internazionalizzazione industriale e del commercio planetario del resto della città. E la rivoluzione delle comunicazioni accentua la consapevolezza di queste disparità e degli squilibri sociali che diventano moralmente inaccettabili e politicamente insostenibili.

1° Simposio sull'uso di internet delle comunità indigene, Università Federale di Saõ Paolo, 12/2010. Foto di Simpindigena con licenza Creative Commons


Le “venas abertas” dei nativi brasiliani

Altre importanti questioni sociali sono legate alle precarie condizioni di vita in cui versano molti popoli indigeni brasiliani: circa 700.000 individui (secondo l’ultimo censimento realizzato nel 2000) che vivono ai margini della moderna e ricca società branca. Molti casi dimostrano come le sorti di questi popoli siano legate al valore economico e strategico rappresentato dalle terre in cui risiedono ed a cui si sentono legati da vincoli ancestrali. Ad esempio i Guaranì Kaiowà, che vivono al confine con il Paraguay, da secoli al centro di violenti e sanguinosi scontri, dapprima con i fazendeiros ed oggi con le multinazionali, per il controllo delle loro terre ancestrali. Popoli da sempre depredati ed espropriati in nome dello sviluppo economico, in assenza di una politica che garantisca loro diritti essenziali e che regoli i conflitti sulle terre da loro rivendicate. Da qualche tempo, però, le battaglie sociali e ambientali dei nativi possono contare sulla diffusione di internet e delle nuove tecnologie informatiche: strumenti indispensabili per cercare uno spazio di visibilità nel villaggio globale.

Combattere i fantasmi dello sviluppo

Sembra dunque che il Brasile abbia tutte le carte in regola per intraprendere quel cammino di crescita socio-economica che può portare tutto il Paese fuori dalla trappola del sottosviluppo. I numeri dicono che il processo è in atto, ma la povertà è ancora la condizione di grandi masse urbane e rurali in gran parte del “continente brasiliano”. Donne, scuola, povertà e promozione dei diritti umani sono i temi dell’agenda politica per il futuro: la grande sfida di questa nuova potenza mondiale consiste proprio nel rendere questo processo il più inclusivo possibile e risolvere le asimmetrie legate alla trasformazione strutturale del Paese. Un Brasile motore e modello di cambiamento in America Latina, ma anche in Africa e in Asia meridionale: luoghi lontani ma accomunati dalla necessità di entrare nel circolo virtuoso della globalizzazione e di godere di uno sviluppo che si svolga nel rispetto della democrazia e della giustizia sociale.

Paola D’Orazio: ha studiato Scienze Internazionali e Diplomatiche a Forlì e Cooperazione e Sviluppo all’Università di Bologna. Si interessa di cooperazione internazionale e politiche di sviluppo locale. “Aspirante” giornalista, segue con interesse le evoluzioni del giornalismo multilingue e dei citizen media.

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