Voci Globali

Israele e Palestina: Ibrahim e la Casa della Pace

[ Articolo di Angelo Calianno * ]

Appena arrivato in Palestina ho preso a parlare con militari israeliani, rabbini ortodossi, immigrati palestinesi tornati in una terra che non era più la loro. Cercando un punto da dove cominciare, un luogo che raccogliesse quante più storie possibili, un punto di partenza da cui cominciare la ricerca. Chiacchierando con un uomo palestinese alla Porta di Damasco sono venuto a sapere della casa di Ibrahim: “Cerca la casa di Ibrahim, è il posto ideale dove cominciare a capire le cose”.

Appena arrivato sul Monte Ulivo a 7 km dal centro di Gerusalemme, tutti sapevano della casa di Ibrahim: “la Casa della Pace”.

The House of Peace è una guest house che ospita persone di qualsiasi religione, razza o credo; c’è sempre un letto e qualcosa da mangiare, Ibrahim non impone una tariffa fissa agli ospiti, ognuno lascia un’offerta in una cassetta davanti alla porta : “Lascia quello che puoi, le spese per questa casa sono sempre tante. E se non puoi ora, lascerai qualcosa la prossima volta, qui avremo sempre da mangiare per i viaggiatori”, mi ha detto Ibrahim.


Ibrahim abu el-hawa. Foto ripresa con autorizzazione.

Già dall’infanzia la storia di questo piccolo grande uomo lo dipingeva come destinato a qualcosa di importante.

Nato la notte del 24 dicembre 1942, arabo-palestinese, compì una piccola grande azione già all’età di 9 anni, quando la famiglia decise di prendersi cura di 3 bambine rimaste orfane. Promise a una di queste che sarebbe diventata sua moglie e giurò anche di prendersi cura delle altre due sorelle, una sorda e una cieca.
Ibrahim ancora oggi tiene fede a quel giuramento.

Una volta raggiunta l’età adulta Ibrahim cominciò a viaggiare per il Medio Oriente prima, e per l’Europa e gli Stati Uniti poi. Viaggiò incontrando i leader religiosi più importanti del mondo per promuovere la pace. Tra incontri e dialoghi con ebrei ortodossi, vescovi e patriarchi Ibrahim ha sempre voluto essere d’esempio a chi non crede possibile l’esistenza di una vera pace.

Ora ad Ibrahim per qualche ragione il governo israeliano ha proibito di volare, troppi timbri “sospetti” sul suo passaporto e allora, 5 anni, fa è iniziata l’avventura della sua Casa della Pace. Qualcuno ha dedicato a questo luogo anche una pagina su Facebook: “Ibrahim and his house of peace”. Visitandola si può capire quanto grande sia il carisma di quest’uomo.

Ma la Casa non si limita ad ospitare viaggiatori: questo luogo è diventato anche sede di incontri e dibattiti come quello del gruppo di Yad Beyad, con ragazzi e ragazze israeliani e palestinesi che da 3 anni si incontrano ogni mese per raccontare le loro storie.

Il gruppo di Yad Beyad. Ebrei e Palestinesi insieme.

Con l’aiuto di due coordinatori, l’israeliano Uri Rosemberg e la palestinese Abeer Abu-Libdeh, i rifugiati incontrano nipoti dei soldati che occuparono questo Paese nel 1948; israeliani che hanno presidiato luoghi a rischio in Palestina riescono qui per la prima volta a comunicare con “l’altro”, come dice il motto di Yad Beyad: per guardare “l’altra faccia del mostro”.

Lo scopo di gruppi come questi è invitare i propri amici con idee più estreme, da una parte e dall’altra, e avvicinarli tra loro. Non sempre è facile, ma i risultati negli ultimi tempi sono stati strabilianti, nonostante i temi siano scottanti e spesso sembrano non incontrarsi mai: l’amicizia nata tra questi ragazzi è un esempio che andrebbe raccontato giorno per giorno.

Una delle storie più incredibili ascoltate all’interno del gruppo di Yad Beyad è quella di Mohammed e di suo nonno.

Nel 1948, durante la prima occupazione israeliana, 20 arabi palestinesi in quella che oggi è Tel Aviv stavano fuggendo da un’espulsione di massa. Il gruppo di di donne e uomini presero a correre verso un dottore israeliano armato, il quale temendo un’aggressione, spaventato, aprì il fuoco. Morirono in diciannove, tra cui il nonno di Mohammed. L’unico sopravvissuto negli anni successivi diventò, incredibilmente, amico dell’israeliano che sparò, un’amicizia che dura ancora oggi dopo 62 anni, anche se i due non si vedono da venti. Mohammed ha così deciso di riunire questi due amici e di andare dall’uomo che uccise suo nonno e chiedergli perché aprì il fuoco quel giorno. Non lo farà con un’arma, ma con una telecamera per trarne un cortometraggio.

Mentre il mondo si affanna ad alzare la voce nei negoziati internazionali, tra gruppi di estremisti che cercano di urlare le proprie ragioni con la violenza, ci sono angoli di Palestina e di Israele pieni di storie come queste, storie che non chiedono propaganda ma che reclamano l’unico diritto che ognuno di questi ragazzi, donne e uomini, sogna per sé e i propri cari: quello di vivere in pace.

Articolo di Angelo Calianno. Scrittore freelance, appassionato di storia e natura viaggia e scrive da circa 10 anni tra Africa, Sud America e Medioriente. Ha pubblicato diversi reportage e racconti in zone devastate dalla guerra. Collabora con riviste di trekking su esperienze “into the wild”. Quando non viaggia lavora come guida turistica in Puglia.

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Post Scriptum: abbiamo ricevuto da Angelo due immagini donategli dalla fotografa freelance Claudia Henzler; insieme ad altri scatti sono state esposte sino a pochi giorni fa presso l’Austrian Hospice nella Città Vecchia di Gerusalemme in occasione della mostra “Terra Sancta – In search of peace” (31/10/2010 – 09/01/2011).


Ibrahim e Naima. Foto di Claudia Henzler su cortese autorizzazione.

Ibrahim. Foto di Claudia Henzler su cortese autorizzazione.

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