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Vivere a Gyetiase: quando è il bianco ad essere nero (parte II)

Gyetiase. Foto © Antonella Sinopoli
Ci sono bambini che piangono
quando vedono "l'uomo bianco". Foto © Antonella Sinopoli

Tra i diritti dell’essere umano c’è quello al miglioramento personale e sociale ma, quando nasci in un villaggio come Gyetiase dove si sopravvive grazie a un’economia di sussistenza, le possibilità di cambiare la tua vita sono davvero limitate. Eppure quante belle menti e cuori mi è capitato di incontrare. Paul Kwaku Opoku che prepara il vino di palma – ore e ore di lavoro sotto il sole nel bush – e mi spiega le procedure con attenzione e pazienza. Vivian Danso che grazie al microcredito ha avviato una piccola attività commerciale e appena può viene a trovarmi per scambiare due chiacchiere. Ha 27 anni, 3 figli piccoli e un altro in arrivo ed è sempre sorridente. Diana Fosuah Owusu, la mia giovane assistente e interprete che a tutti i costi per Natale ha voluto farmi un regalo e mi sta insegnando un mucchio di cose sulla sua cultura. Felix Mensah, che a undici anni legge poeti del romanticismo inglese e fa discorsi troppo grandi per la sua età. È orfano, come tanti, e vive con la nonna. Non puoi fare a meno di notarlo, è sempre pulito e ben vestito contrariamente ad ogni altro bambino. “Andrò a vivere a Londra” dice. Il chief di un villaggio vicino, di cui purtroppo non ho memorizzato il nome, che mi ha detto: “Tutti abbiamo dei problemi, anche Dio, che vorrebbe che tutti credessero soltanto in lui, ma non è così”.
Sì, è vero. Solo a Gyetiase, che conterà qualcosa come 1.200 abitanti, ci sono sei chiese. Eppure, all’apparenza, non sembra esserci rivalità. In ogni caso ad accomunarle tutte è un cerimoniale fatto di canti e danze che possono andare avanti per ore. Al suono di percussioni e battiti di mani. L’Africa nelle chiese ha qualcosa di affascinante e ipnotico.
Come affascinanti sono i gesti quotidiani a cui finisci anche tu per fare l’abitudine. La sveglia all’alba al suono degli edon, il bagno nei catini, il battere nel mastello che annuncia, a partire dalle 14 circa, la preparazione del fufu, il richiamo dei konkon. Le pecore giovani che cercano le madri. Le capre che quasi ti camminano sui piedi. Forse tutto questo mi mancherà. Sicuramente quei “neri” che incrociamo per le nostre strade conservano nelle orecchie i loro suoni. Il ricordo di una quotidianità perduta, dove erano uguali agli altri, non dei diversi che sperano di non sentirsi e di non essere trattati come tali. Come me adesso.

Preparazione di cassava e plantain per la cena,
spesso unico pasto del giorno. Foto © Antonella Sinopoli

Mi domando quanti tra coloro che stabiliscono i flussi di ingresso e le politiche sull’immigrazione abbiano mai conosciuto un posto come questo. Abbiano mai sentito il peso della diversità e della discriminazione nelle loro relazioni quotidiane. Mi domando quanti tra coloro che hanno deciso i tagli alla cooperazione abbiano mai visto qualcuno sudare per coltivare un po’ di cassava e yam da cucinare tutti i santi giorni. Sempre la stessa cosa. Sarebbe interessante per queste persone, come per chiunque ragioni ancora nei termini del “noi” e “loro”, farsi “una vacanza” da queste parti per vedere, per capire, per animare un po’ il proprio cuore. Un viaggio che raccomando anche a chi ha voglia di esplorare il mondo e brama mete esotiche. Perché oggi il vero pioniere non è chi arriva in luoghi meravigliosi e incontaminati (a patto che ne esistano ancora) ma chi va in posti degradati e poveri. Dove se prendi la malaria e non hai le medicine muori. Dove gli odori sono spiacevoli, dove nessuno vorrebbe mai andare. Né tanto meno vivere. Ma dove, se offri una caramella a un bambino, questo ti mette davanti il più piccolo e gli allunga la mano in modo che tu la dia a lui per primo.

[ Tutte le foto © Antonella Sinopoli ]

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