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Vivere a Gyetiase: quando è il bianco ad essere nero (parte I)

Può capitare che il bianco prenda il posto del nero. Quando accade, la prospettiva cambia e la lente con cui guardavi le cose intorno a te è da buttare via. Da circa due mesi vivo in un villaggio nella Regione Ashanti del Ghana. Si chiama Gyetiase ma non riuscirete a trovarlo su nessuna cartina, neppure sulla più aggiornata Google Map. Perché semplicemente Gyetiase quasi non esiste. Non esiste un’anagrafe che registri nascite e morti, e nelle case non c’è né elettricità né acqua corrente. Eppure, vi assicuro, questo villaggio esiste ed è fatto di persone vitali, fantasiose, amichevoli. E di bambini. Molti, troppi, la maggioranza della popolazione. I bianchi per loro sono obruni, punto e basta. Uno uguale all’altro, più o meno. E se riesci a far ricordare il tuo nome vero a qualcuno e lo senti pronunciare a distanza di qualche giorno ti senti felice. Come se ti avessero ridato l’identità. E soprattutto, come se il lungo lavoro di riconoscimento e di costruzione di un’amicizia stesse cominciando a dare qualche frutto. Perché qui un bianco è solo un bianco. E in aggiunta, un italiano, anzi un’italiana, è la prima volta che l’incontrano. Qui gli uomini ti chiedono di sposarli, le donne di venir via con te e i bambini … solo toffee, una caramella.

Perché non c’è bisogno di aver girato il mondo o di possedere un televisore per sapere che da qualche parte c’è un mondo diverso, più ricco e più comodo. Perché tutto questo è semplicemente rappresentato dalla mia presenza. Da me che penso di essere normale e invece non lo sono. Almeno non per loro. E lo sono ancora meno quando metto piede fuori da questo posto isolato e sconosciuto per andare “in città”. Sul tro-tro sono l’unica bianca, sui taxi (ma non pensate ai nostri, per carità) devo contrattare il prezzo perché non è mai lo stesso e se vado a visitare qualche luogo naturalistico o storico in giro per il Paese mi tocca pagare il doppio – tariffa speciale per gli obruni. Tanto che quasi preferisco restare nel mio piccolo villaggio, che ormai a me si stanno abituando.

Anche se poi ti viene il sospetto: possiamo davvero diventare amici? O sperano soltanto che ne venga fuori il sostegno per aprire una piccola attività o per gli studi dei loro figli? Sono dubbi che ti sfiorano, la diversità è troppo evidente, marcata, sottolineata. Ma sapete cos’è successo quando al tassista che mi ha chiesto di più del solito ho spiegato qual è la mia mission qui e ho aggiunto che essere bianchi non vuol dire essere anche ricchi? Ha rimesso la mano nella tasca dei pantaloni e mi ha restituito un Ghana cedi, il di più che mi aveva chiesto. Inutile dire come mi sono sentita, visto che per noi equivale a pochi centesimi. Ma io volevo solo essere trattata come gli altri.

Prendere l'acqua da fiumi e ruscelli richiede ore di cammino e grande fatica. Foto © Antonella Sinopoli

Il Nord e il Sud del mondo sono semplici riferimenti sulla carta geografica, anzi nemmeno, perché anche una carta geografica può essere capovolta. Allo stesso modo, l’opposizione del bianco al nero, e viceversa, è solo una questione di quantità. Sono diversa perché sono la sola, sono diversa perché il confronto è tra tanti uguali. Sto contando le volte in cui un bambino inizia a piangere quando mi incontra. Ad uno è venuta quasi una crisi isterica per la paura. Sì forse fa ridere, ma non quando ci sei dentro. Mi immagino come deve essersi sentito quell’uomo di colore additato nell’autobus da mio fratello piccolo che urlava, “mamma, ma quello è nero!”. Ma era parecchi anni fa. Ora forse ai “neri” dovremmo essere, in Italia e in Europa, abituati. Mi capita molto spesso, qui, di incontrare qualcuno che mi dice di avere parenti da qualche parte, anche nel nostro Paese. E mi dicono con orgoglio che in Italia hanno un lavoro e una famiglia, spesso con coniuge “bianco”. Loro, invece, non hanno mai messo il piede fuori di qui.

La rotta più lunga è verso Mampong, Nsuta e per i più fortunati che hanno qualche affare o parente, Kumasi o Accra, la capitale. Il resto è tutta immaginazione. Ma neanche per sognare c’è molto tempo. Le donne spendono ore (tre o quattro volte al giorno) per andare ai ruscelli a prendere l’acqua che trasportano sulle loro
teste. Poi vanno in campagna o si dedicano ad attività di vendita di prodotti primari. Anche ai bambini tocca prendere l’acqua, prima e dopo la scuola. E se qualche volta si addormentano sui banchi è perché sono stanchi e affamati. Gli uomini lavorano per lo più in campagna oppure sono in città a lavorare e tornano, quando tornano, il fine settimana.

Stirare alla luce di un lampione con un ferro riscaldato con la brace ardente.Foto © Antonella Sinopoli

E poi c’è il sole fortissimo della stagione secca e la pioggia implacabile del resto dell’anno che impediscono al corpo e alla mente di fare tanti progetti. E il lavoro nei campi è faticoso e le strade impraticabili. Così si rimane nell’attesa di qualcosa. Un’Organizzazione dall’estero (come la mia) che porta speranza e aiuti, qualche bianco che porta novità, un parente emigrato che si ricorda di te. Il buio e la luce sono concetti semplicissimi legati al ciclo del giorno e della notte. Alle 4.30, più o meno, tutto comincia. Alle 18.30, più o meno, tutto si ferma. O quasi. Pochi mesi fa hanno portato i pali della luce lungo qualche tratto di strada e all’interno del villaggio. Così qualcuno si attarda sotto un lampione. Giovani che preparano l’esame del trimestre, una ragazza che stira la divisa scolastica su un panno appoggiato sull’erba e con un ferro a brace. Qui non esistono cancelli, steccati, porte a serratura. Né frontiere tra un villaggio e l’altro, tra una proprietà e l’altra nelle zone coltivate. Ma esiste una barriera invalicabile, la quasi impossibilità di modificare la propria esistenza.

(La seconda parte dell’articolo verrà pubblicata il 2 gennaio 2011)

[ Tutte le foto © Antonella Sinopoli ]

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