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Entra in vigore il test di italiano per gli immigrati: strumento di integrazione o barriera?

Giovedì 9 dicembre è entrato in vigore il decreto del Ministero dell’Interno del 4 giugno 2010 che introduce il test di italiano per gli stranieri, come parte del cosiddetto “permesso di soggiorno a punti”. L’esame riguarda per ora solo gli immigrati che intendono richiedere il permesso di soggiorno CE di lungo periodo, ottenibile da chi risiede in Italia da almeno cinque anni. Per i neo-arrivati è invece ancora in bozza il cosiddetto “accordo” di integrazione, che in realtà sarà misura obbligatoria basata sulla conoscenza della lingua e altri elementi quali educazione civica, percorsi di istruzione e formazione, un contratto di locazione o altro. L’accordo durerà due anni, durante i quali l’immigrato dovrà raggiungere la quota di 30 crediti, a partire da un monte crediti iniziali di 16. I provvedimenti erano già stati annunciati nel pacchetto sicurezza approvato nel luglio 2009.

L’iter previsto per la realizzazione del test di italiano è il seguente: l’immigrato presenta, con modalità informatiche, la richiesta di partecipazione al prefetto; entro sessanta giorni verrà convocato dalla prefettura per lo svolgimento della prova, previa identificazione del richiedente. Il test verrà condotto in un CTP (Centro Territoriale Permanente per la formazione degli adulti) il quale, nel frattempo, avrà dovuto definirne le linee guida elaborate dagli enti certificatori (per ora sono 4 in tutta Italia). Tale esame non sarà dunque uniforme sul territorio nazionale bensì differenziato secondo le scelte attuate dai singoli CTP. Il livello di conoscenza richiesto corrisponde al livello A2 del Quadro comune europeo, equivalente a una conoscenza minima della lingua, quanto basta per capire e farsi capire per strada o sul lavoro, e per riuscire a scrivere testi brevi e semplici.

L’evidente complessità burocratica andrà a pesare non poco sugli immigrati destinatari del provvedimento, i quali sono peraltro già oggi sottoposti a una procedura faticosa per ottenere il permesso di lungo periodo, mentre i costi non potranno che aumentare. La legge presenta peraltro diversi aspetti organizzativi e importanti dubbi, ancora da chiarire. Abbiamo chiesto un parere in merito al coordinatore della Rete Scuolemigranti (rete di scuole del volontariato con sede a Roma) Augusto Venanzetti, che indica come elementi critici i seguenti:

– La procedura informatizzata (straniero che compila la domanda via internet) va supportata con l’intervento degli enti di patronato, un po’ come succede con i decreti flusso;
– Gli Uffici Scolastici Regionali devono fare una verifica al loro interno per stabilire quali CTP siano in grado o disponibili a diventare sede di test. Le sessioni dovrebbero essere quasi una al mese e l’impegno non è da sottovalutare. Nonostante questa procedura sia finanziata, non lo è al punto di consentire nuove assunzioni, e la carenza di personale sarà condizionante. La situazione nelle grandi aree urbane sarà più agevole, ma in alcune province sarà un problema e c’è il ragionevole rischio che alcune aree restino scoperte;
– Sui CTP si andrà convogliando una domanda molto sostenuta, e graverà soprattutto la richiesta di corsi. Finora i Ministeri si sono preoccupati solo di assicurare lo svolgimento dei test e nessuno ha pensato ai corsi di preparazione (che non sono finanziati). Invece il problema sarà di sistema e le due cose vanno correlate. E qui parliamo ancora degli stranieri che intendono richiedere la Carta di Soggiorno di lungo periodo. Quando rifluiranno nella procedura anche i nuovi ingressi (decreti-flusso), la pressione per iscriversi ai corsi sarà notevole.

Va anche considerato che sarà difficile stabilire dei criteri di valutazione oggettivi, data la non uniformità a livello nazionale. Inoltre, quanti hanno già ottenuto il livello A2 presso un’associazione non vedranno riconosciuta tale qualifica (art.4 del decreto), scelta davvero penalizzante nei confronti di quelle realtà che su tutti i territori si impegnano quotidianamente a favore dell’integrazione dei migranti.

Scuola di italiano per migranti. Foto di Silvia Cicconi, su permesso dell'autrice

Oltre a dubbi specifici, non convince il valore di integrazione e accoglienza della normativa. Non è la prima volta che l’attuale governo introduce novità legislative che, prese neutralmente, potrebbero essere condivisibili ma, per come vengono proposte e organizzate, paiono soprattutto di valore simbolico e orientate alla discriminazione degli stranieri. Secondo Venanzetti:

La normativa sul test, che non è scaturita da un piano di politiche dell’integrazione ma – come noto – dal ‘pacchetto sicurezza’, nato con ben altre finalità, ha finito per prevedere un meccanismo selettivo e costrittivo, del tutto privo di un respiro di interculturalità, di percorsi virtuosi di inserimento. Oltretutto anche contraddittoria con i dati: l’ultimo Rapporto Censis rivela che l’85% degli immigrati soggiornanti ha una conoscenza buona o soddisfacente della lingua. Nessuna emergenza, dunque, ma solo una carenza di offerta formativa di corsi sulla quale invece non è stato previsto nulla. Negli altri Paesi europei (il 53% del Consiglio d’Europa) sono state messe a disposizione risorse che consentono anche fino a 600 ore di corsi gratuiti (Germania e Francia su tutte).

In effetti – e si veda anche la composizione degli ingressi nel nuovo decreto flussi recentemente approvato – la gran parte dei lavoratori immigrati sono colf, badanti, baby sitter o comunque operatori del commercio o dell’industria già assolutamente in grado di capire e farsi capire, anche perchè presenti in Italia da almeno 5 anni. In realtà il test comprende una prova scritta, e questo viene ritenuto un forte ostacolo al superamento per molti migranti. Perchè allora, in un’autentica logica di integrazione, non corredare il decreto con l’istituzione di fondi per corsi di italiano? In questo modo il decreto rappresenterebbe un riconoscimento del valore degli immigrati, risorse insostituibili per il futuro di un sistema altrimenti destinato al declino economico e sociale.
In un’ottica propositiva, Venanzetti conclude fornendo alcune indicazioni per agevolare il processo nel futuro:

– La messa a disposizione di risorse (dagli enti locali, dai fondi europei) per consentire la realizzazione di corsi di preparazione, anche con meccanismi a scalare in modo da effettuarli a ciclo continuo durante l’anno;
– La realizzazione di protocolli d’intesa sul territorio, tra enti locali, scuole pubbliche, scuole del volontariato, comunità straniere, imprenditori, organizzazioni sindacali, per concordare azioni formative, luoghi e orari accessibili per lo svolgimento dei corsi (anche serali e ricorrenti);
– La configurazione di una visione di sistema (oggi decisamente carente e sperequata), nella consapevolezza che il processo di inclusione degli immigrati richiede una serie di azioni interrelate, sulle quali far intervenire una pluralità di soggetti.

L’intervista integrale ad Augusto Venanzetti è disponibile qui.

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