Nell’era globale in cui viviamo, a quanti di noi è capitato di sentirsi straniero in una terra sconosciuta che non gli appartiene? E quanti hanno poi deciso di affrontare le difficoltà dell’emigrazione per cogliere quell’opportunità di una vita migliore? E ci siamo mai chiesti cosa succeda al nostro io quando strappiamo quelle radici che ci sorreggono nel processo di costruzione della nostra identità? Carla Pravisani ci racconta la sua, di identità, in un bellissimo intervento senza tempo né confini, pubblicato sul blog Fusil de Chispas del costaricense Cristian Cambronero. Eccone la traduzione.
Essere di un altro luogo è sempre complicato. Essere della provincia nella capitale o della capitale nella provincia. Essere del nord al sud o del sud al nord. Essere straniero significa avere sempre un passato e un futuro nascosti dalla nebbia. Lottare con carte, autenticazioni e numeri chilometrici. Spiegare chiaramente cosa cela quel cognome e cancellare i sospetti con azioni. Per niente facile.
Ma tutto questo, con il tempo, è diventato meno problematico che essere una discendente di migranti. Un’unione di nazionalità disperate. Un albero genealogico con le radici ancora grondanti di terra. Perché lì nella mappa, diviene un enorme scarabocchio, e l’immaginazione si trasforma in una matita che disegna goffamente questo paese fatto di ogni luogo. Una storia smembrata.
La cosa peggiore dell’essere nipote di migranti è non sapere esattamente cosa è andato perso né dove recuperarlo. Se si troverà in quella paella che odora in lontananza o su quegli gnocchi che non sono nemmeno più di patate. Forse è per questo che si aprono di nascosto le valige di inizio secolo piene di vestiti tarmati o si guardano foto di una serie infinita di sconosciuti.
Forse per questo si cerca con curiosità e sconforto la strada del ritorno, quella rimasta senza più molliche, e la si ricostruisce in un silenzio che non ha risposte alle domande, o la si rivive nelle parole di un parente senza volto.
Perché a essere figlia di migranti si cresce credendo di non essere di dove si è, e che presto arriverà l’ora di andarsene, e che uno strano vincolo con il nulla si trasformi con gli anni in un robusto cordone ombelicale.
Qui molti mi dicono che ho perso l’accento del mio luogo d’origine. Che parlo come una cilena, che sembro cubana, paraguayana o del Venezuela. Sembra che qualsiasi posto mi calzi a pennello. Altri si stupiscono quando dico che sono argentina. O peggio ancora, che non sono di Buenos Aires.
E io, come se fosse un crimine, confesso che vengo da un piccolo paese. “Quale?”, si interessano i meno disillusi da questa camaleontica argentina che non vosea né si fa il segno della croce con la carne.
E a quel punto arriva il peggio.
In primo luogo perché dimostrare che l’Argentina non è Buenos Aires è praticamente impossibile. Non esiste eroe nazionale che ci sia riuscito, né alcun politico di turno che ci abbia anche solo provato. E in secondo luogo perché trovare il mio paese non è neanche così facile. Ogni anno ciò si fa sempre più evidente.
Ma se insistessero e dovessi indicarlo, direi che è lo stesso in cui giocava mia nonna laggiù in Italia, lì al Nord. E quello di cui, decenni più tardi, sentì la mancanza mio padre. Uno attaccato alla Bolivia. O chissà, mia madre se lo ricorda sulle rive del mar Mediterraneo. Pero io giurerei che si trovasse da qualche parte sul confine tra il Brasile e il Paraguay. Insomma … questo è il paese a cui penso quando me lo chiedono. Un paese di cui praticamente rimangono solo un quartiere, una casa e un cortile nel quale giocava una bambina con un coniglio di nome Tato.
Post originale in spagnolo: El oficio del extranjero