28 Marzo 2024

Caos, editti e retromarce. Donald già nei guai

Caos e bugie, editti e retromarce, distrazioni e bullismo. Questa la ricetta che Donald Trump ha tentato di propinare ai suoi concittadini nei primi 10 giorni di insediamento. La maggior parte dei quali però non ha gradito, tra estemporanee proteste di piazza e reazioni indiavolate sui social media. Ciò in risposta ai decreti esecutivi per il muro con il Messico e il “Muslim ban“, che (diversamente dagli altri decreti) è entrato in vigore immediatamente, causando seri problemi complessivamente a circa 90.000 persone secondo il Washington Post, e non alle sole 109 fermate e torchiate nel week-end (e alcune rispedite subito indietro) pur avendo i documenti in regola, come vorrebbe far credere l’Amministrazione Trump.

Pur se nel giro di poche ore quattro giudici (donne) hanno parzialmente bloccato l’editto di Trump, le autorità di 16 Stati si sono comunque rifiutati di far entrare negli Usa chi era rimasto in un ‘limbo’, mentre sono partite altre denunce per incostituzionalità e dovrebbe discuterne quanto prima anche il Congresso. Ciò in aggiunta alle migliaia di cittadini che hanno spontanemente invaso i maggiori aeroporti protestando a viva voce contro tali misure. E quattro Stati hanno già presentato formale querela contro l’Amministrazione. In altri termini: la confusione regna (e regnerà) sovrana.

da TwitterOltre a quanto sopra, l’ennesima conferma del clima circense è arrivato nella serata di lunedì 30 gennaio, quando Trump ha licenziato in tronco il Procuratore Generale reggente, Sally Yates, pochi minuti dopo che quest’ultima avevava annunciato pubblicamente il rifiuto a difendere nelle sedi giudiziarie il “Muslim ban“. Licenziare al volo è una cosa che Trump sa fare benissimo, come se fosse ancora la star  della serie Tv The Apprentice (dal 2004 sulla rete NBC). Con un tocco da generalissimo, stavolta, visto che nella lettera pubblica Sally Yates viene accusata di “tradimento” (dopo aver lavorato per 13 anni al Ministero di Giustizia) e pur se, nota giustamente il senatore democrat Charles Schumer, “il procuratore generale deve giurare fedeltà alla legge, non alla Casa Bianca”.

Un monito per l’intera  filiera istituzionale, che si è rapidamente esteso ai circa 900 diplomatici che hanno sottoscritto un documento di protesta soprattutto per le modalità con cui è stato attuato il decreto anti-immigrazione, visto che non c’era urgenza né voci di possibili attentati terroristici collegati a quei Paesi. Anche per loro è scattato l’avviso: “Seguite il programma o trovatevi un altro mestiere”.

Mentre Lawrence Lessig non esita a parlare di crisi costituzionale in corso, quest’inedito bullismo presidenziale ha portato molti commmentatori a paragonare l’intera vicenda all’infausto  Saturday Night Massacre del 1973, e l’omonimo hashtag è diventato trending per un buon periodo su Twitter (vedasi foto sopra). Il Procuratore Generale dell’epoca, Elliot Richardson, diede le dimissioni (insieme al suo vice) per non sottostare all’ordine di Nixon di licenziare in tronco il procuratore speciale che aveva avviato le indagini  su quello che sarebbe divenuto lo scandalo Watergate.

Si affaccia cioè lo spettro della Presidenza più nefasta dell’era moderna americana, quella di Richard Nixon (1969-1974). Anche se per altri versi Trump preferisce rifarsi a Ronald Reagan (1981-1989), di cui ha ripreso e ampliato lo slogan (“Make America Great“) e si appresta a imporre una versione rivista della controversa Reaganomics.

Intanto la città di San Francisco è la prima ad aver presentato formale denuncia contro un altro editto di Trump, la cancellazione dei fondi federali per le cosidette sanctuary cities“, le cui policy mirano a tutelare gli immigrati illegali e limitare la cooperazione con le agenzie federali in tal senso. Come ha spiegato Dennis Herrera, Procuratore capo di San Francisco:

L’ordine esecutivo del Presidente è non solo incostituzionale ma anche ‘un-American‘. Per questo dobbiamo farci avanti e opporci. Siamo un Paese di immigrati e basato sulla legge. Tocca a noi diventare i ‘guardiani della democrazia’, riprendendo l’appello di Obama nel suo discorso di commiato.

Fra le diffuse proteste tuttora in corso nel Paese, da segnalare che, per la prima volta nel caso di un neo-Presidente, Trump ha cancellato la prevista visita a Milwaukee, Wisconsin, proprio a causa delle annunciate manifestazioni dei cittadini. Doveva tenere un intervento sulla ripresa dell’economia e dell’occupazione in una fabbrica delle moto Harley-Davidson.

Impeach Trump Now E mentre fanno capolino le prime spaccature tra i senatori repubblicani sulle nomine in discussione, continuano a circolare online appelli a resistere e petizioni di vario tipo, inclusa quella per chiedere subito l’impeachment per conflitti d’interesse: superate le 600.000 firme in pochi giorni. Opinione alquanto diffusa a livello locale, come rivela un ‘lettera al direttore’ pubblicata dal quotidiano Santa Fe New Mexican con il titolo “In attesa dell’inevitabile: l’impeachment di Trump” e dove si propone una lista parziale dei possibili motivi per tale passo:

Ha vinto ottenendo quasi tre milioni in meno di Clinton nel voto popolare e con l’aiuto di hacker russi.  Rifiuta di diffondere la dichiarazione dei redditti, da cui potrebbero emergere conflitti d’interesse. Continua a possedere enormi imprese internazionali, e affidare la gestione a figli o cognati non è una soluzione. Anche i  suoi tweet offensivi e infantili potrebbero contribuire a causarne la disfatta. E se l’impeachment è improbabile oggi con il Congresso in mano repubblicana, ciò potrà cambiare tra due anni.

Nel giro di appena due settimane, insomma, il neo Presidente ha causato un pandemonio. Applicando l’attesa politica del bastone e della carota, oltre a varie uscite funamboliche. In fondo ciò non desta sorprese, visto quanto aveva promesso in campagna elettorale e conoscendo ormai il personaggio. Di sicuro però Trump va sottostimando la robustezza, l’impegno e la voglia di pulizia degli americani e delle loro istituzioni. Ne vedremo ancora delle belle.

Bernardo Parrella

Traduttore, giornalista, attivista (soprattutto) su temi relativi a media e culture digitali, vive da anni nel Southwest Usa e collabora con progetti, editori e testate italiane e internazionali (@berny).

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